cerco di spiegarvi una cosa

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Ehi ragazzi, sono io, la rompina che vi sta sempre addosso. Quella che sa dove sono le mutande, le calze e la verifica dei verbi dispersa. Quella che passa il tempo in casa a borbottare. Oggi cerco di spiegarvi una cosa, difficile anche per me. Oggi cerco di spiegarvi perché dobbiamo avere fiducia.

Dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni, che scriviamo con l’iniziale maiuscola: nello Stato, negli Enti Locali, nella Scuola. Perché la vita nel nostro mondo è così meravigliosamente complessa e articolata che ciascuno di noi deve delegare parte delle proprie scelte e decisioni a un organismo al di sopra degli individui singoli, capace di portare avanti la costruzione di un bene comune più ampio. Dobbiamo avere fiducia non solo quando le cose vanno bene, quando le risorse sono tante e le scelte sembrano le sfumature di una confezione da 72 di matite colorate. In quelle situazioni è facile essere democratici, ma non è lì che si mette alla prova la tenuta di questo sistema di convivenza civile. Quando le scelte impongono sacrifici, priorità da assegnare, rinunce e allocazione di risorse limitate (anzi, direi scarse): è allora che dobbiamo pensare che il bene comune sia indispensabile e sicuramente più importante del nostro bisogno personale impellente. E che quelle Istituzioni, le stesse che sbagliano, inciampano e cadono, sono l’unica strada possibile per uscire dalla crisi. E hanno bisogno della nostra fiducia, non cieca ma consapevole, responsabile e collaborativa.

Dobbiamo aver fiducia nel prossimo che incontriamo per strada. Non sto parlando dei nostri o vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri insegnanti e allenatori. Parlo dell’anziano sul pullman a cui cedete il posto, del vicino di casa che scende dall’ascensore e non vi saluta, del genitore del compagno di classe e del cassiere del supermercato. Dobbiamo fidarci del fatto che chi ci circonda non sia un nemico e non abbia l’obiettivo di fregarci. Non ci dobbiamo difendere, ma aprirci agli altri, accoglierli e farci accogliere, affidarci nelle difficoltà. Perché la vita in difesa è molto più faticosa e l’unico risultato che si ottiene (nella migliore delle ipotesi) è di non arretrare rispetto al proprio punto di partenza, quando invece voi avete gambe e cervello capaci di andare molto lontano. Non si tratta di guardare il mondo con gli occhiali rosa degli ingenui, ma di scegliere di utilizzare le proprie energie per condividere e propagare il buono e il bello.

Dobbiamo aver fiducia nel domani o almeno nel dopo domani. Non vuol dire aspettare che passi la tempesta, ma costruire oggi le vostre competenze, la vostra professionalità, il vostro essere uomini e donne. Con impegno, costanza, passione. Anche se quello che abbiamo intorno in questo momento è simile alla nebbia che da qualche mattina vediamo fuori dal nostro balcone. Mia mamma, la nonna, mi ha insegnato che quando al mattino c’è la nebbia poi nella giornata spunta il sole, lei che ogni mattina attraversava il Sangone per andare a fare la maestra in una scuola che in certe giornate sembrava immersa in una tazza di latte bianco. Non so quanto durerà questa mattina avvolta dalla nebbia e non so se il sole lo vedremo oggi o domani. O forse dopo domani. Ma tornerà e noi saremo pronti a spingere i nostri passi sulla strada, perché avremo preparato lo zaino, stretto i lacci degli scarponi e studiato la cartina.

Stringete i denti e la mano di chi avete vicino e nutrite la vostra fiducia nelle Istituzioni, nel prossimo, nel domani. In voi stessi.

i luoghi del cuore

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Ci sono dei posti che parlano solo a qualcuno. Non a tutti quelli che passano distratti, non a chi li frequenta per forza, non a chi se li è trovati per caso e non li ha fatti entrare nella propria vita. Ci sono dei posti in cui ti basta passare in macchina, per caso, una mattina di luglio e senti l’odore di casa, il calore di chiacchiere con amici, i rumori delle emozioni che lì hai provato.

Nichelino, periferia sud di Torino. Già il nome dovrebbe mettere in allerta: una delle ipotesi della sua origine è che derivi da “nihili locus”, cioè terra del nulla, perché lì dove adesso c’è una cittadina, in passato ci sono stati terreni paludosi tra i due fiumi, il Po e il Sangone. Leggo da wikipedia che questa origine sembra poco probabile, ma chiunque abbia attraversato il ponte sul Sangone che porta a Nichelino in un giorno di inverno sa bene che la nebbia, condizione atmosferica che più di tutti richiama il concetto di “nulla”, è cittadina onoraria del comune e ci sono giornate in cui non si alza mai (mentre a un km di distanza c’è il sole e il cielo azzurro). È un luogo da nulla, senza grandi pretese, con un’architettura piuttosto anonima, senza slanci culturali brillanti, senza un tessuto sociale particolarmente ricco e attivo.

Ma è casa mia. È il posto dove mio nonno è nato e viveva, dove c’era la casa in cui dava i calci contro il muro per farsi comprare il gelato da sua mamma finché non gli si rompevano le scarpe. È il posto in cui ha fatto il consigliere comunale e ha messo su la casa del popolo insieme a Cino e ad altri amici comunisti, quelli che sento ancora parlare dentro di me. È il posto in cui lui e nonna hanno messo su casa, dove è nata mia mamma. È il posto in cui ha insegnato mia mamma per tanto tempo, in quelle scuole che conoscevo meglio della mia, con quelle colleghe e quei colleghi che mi hanno visto con le trecce, di cui ho conosciuto vicissitudini, gioie e drammi. È il posto in cui viveva la mia amica Stefania con i suoi genitori, nella casa con l’androne grande e la porta che sbatte se non l’accompagni, i pulsanti dell’ascensore che sembrano le caramelle di liquirizia. È il posto in cui è tornata Enrica prima di morire, dove l’ho vista uscire da un’ambulanza, dove l’ho salutata per l’ultima volta. È il posto in cui c’è un parco che si chiama “Boschetto” perché è proprio così: un boschetto con sentieri fitti di vegetazione, griglie per i barbecue domenicali dei rumeni che vivono lì, gazze che volano e sole che filtra tra le foglie degli alberi. È il posto in cui c’è il cimitero con la maggior densità dei miei affetti, dove vado appena sono in ferie, come per inaugurare ogni volta un periodo in cui posso pensare un po’ più a me e a quello a cui tengo e meno ai doveri.

È assurdo sentirsi a casa in un luogo del nulla o iniziare le vacanze andando da sola in un cimitero. O forse no: è in quel nulla che tanti pensieri, passioni, amore e impegno hanno trovato lo spazio adatto per mettere radici, è in quel cimitero che ricomincio a parlare con me stessa, accarezzando il marmo, raccogliendo fiori per terra, parlando ad alta voce e baciando quelle foto. È in quel luogo del cuore che mi sento veramente me stessa, in contatto con tutto quello che sono, col passato e col futuro, con sulle spalle il carico delle mie eredità e negli occhi il Monviso o il Sangone, che continueranno a essere lì anche dopo di me, per chi saprà vivere quel posto e non solo passarci attraverso.

nuove glaciazioni

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I risvegli sono complessi questa settimana, pieni di pensieri e di riflessioni. Per cose grandi e che potrebbero sembrare lontane, come elezioni, referendum, sentenze. Ma che in fondo sono vicine, grandi e influenti, rilevanti per il progetto di mondo e di vita che ho, per l’idea di educazione che cerchiamo Flavio e io di mettere in pratica.

Vedo una tendenza diffusa nel mondo che mi circonda, una direzione che dal mio punto di vista è una deriva, verso l’affermazione di posizioni individuali, personalistiche. Insoddisfatti del mondo che abbiamo intorno, infelici e provati da un periodo di recessione economica importante, che ci affatica e ci deprime (non solo nei consumi, ma nella nostra vita a 360 gradi) proviamo a rimettere indietro l’orologio. Anziché aprire le finestre e respirare a pieni polmoni l’aria che ci colpisce in faccia, decidiamo di immergerci in apnea e rientrare nel nostro stagno, nelle acque basse in cui ci troviamo a nuotare. Anziché provare a progettare e realizzare un mondo più ampio, collettivo, comunitario ritorniamo nello nostre quattro mura, e chiudiamo la porta, le finestre, il camino (che le cose belle, come Babbo Natale, o quelle brutte, come il lupo, arrivano anche da lì). Anziché pretendere di poter vedere una parte più grande di cielo, per avere l’azzurro e le nuvole, il sole e la neve, chiediamo un tetto sopra la testa, che ci chiuda in un posto che riteniamo sicuro, che ci separi da ciò che c’è fuori che è diverso e inaspettato. Anziché allargare il nostro orizzonte ci mettiamo i paraocchi, per andare dritti su una strada che speriamo ci porti alla sopravvivenza, a una vita se non soddisfacente, almeno sufficiente.

E io ho paura. Paura che il mondo che lascio ai miei figli sia di piccoli interessi, di diritti individuali e individualismo, di “homo homini lupus”, fatto di classifiche, di graduatorie in cui l’obiettivo è arrivare primi. Perché su ciascun gradino ci sta solo una persona, non una comunità. Ho paura che portarsi il pasto da casa a scuola voglia dire non cogliere il valore educativo e formativo del condividere il cibo. Ho paura che vedere le file davanti ai musei contrapposte alla povertà voglia dire togliere cultura, bellezza e libertà a tutti, ricchi e poveri, convinti che l’uomo abbia solo bisogni primari. Ho paura che uscire da una comunità europea piena di problemi, ma che ci obbliga a pensare insieme, in modo collettivo, voglia dire tornare ciascuno nei propri confini e considerare il mondo non più fratello, ma nemico.

Siamo usciti tempo fa dalle caverne, non possiamo rientrarci perché la realtà intorno cambia, ci interroga e ci affatica. Perché da questa nuova glaciazione del pensiero e della nostra voglia di futuro e di evoluzione ci risveglieremo involuti, depressi, più poveri. Lasceremo per la strada gli altri, convinti che sia necessario per salvarci, e scopriremo poi di esserci persi noi stessi. Per sempre.