son talenti

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I miei figli hanno un talento speciale. Tutti e tre, quindi immagino che ci sia una parte di responsabilità genetica in questo. Devo indagare con mia mamma e mia suocera, per capire chi tra me e loro padre ha trasmesso il gene fortunato.

I miei figli sanno sentire in anticipo la tragedia, la calamità naturale. Come gli animali che sentono il terremoto quando ancora le placche terrestri dormono il sonno dei giusti o che percepiscono il tornado o l’alluvione quando l’aria è ferma e secca come in un forno statico. Sembra un talento da poco, ma forse tra qualche anno partiranno per il Giappone o i Caraibi e salveranno milioni di persone alzando il ditino per parlare e dicendo, con gentilezza, “Scusate il disturbo, sta per arrivare un disastro naturale. Lasciate tutto qui e scappate subito”.

In attesa di trasferirsi dall’altra parte del pianeta e salvare l’umanità, si esercitano a casa. Anche perché, devo ammettere, che devono ancora affinare la loro sensibilità. Perché loro ogni volta che escono di casa scappano a gambe levate, lasciando la bottiglia finita della bibita sul bracciolo del divano, i quaderni aperti sul tavolo del soggiorno, i fazzoletti usati sulla scrivania, le carte della merendina sul letto, gli spartiti sparsi sul divano mischiati ai vestiti sporchi della palestra.

Evidentemente sono dovuti scappare da casa, abbandonare tutto senza poter buttare l’immondizia prodotta, chiudere i libri e mettere il cappuccio alle penne, ritirare gli spartiti e mettere i vestiti puzzolenti nel cesto della biancheria sporca. Se l’avessero fatto avrebbero rischiato che il palazzo gli si sbriciolasse sotto i piedi, le finestre sarebbero andate in frantumi per il vento del tornado in arrivo e il salotto sarebbe stato sommerso dall’acqua del Po esondato in un’onda anomala (e il Po dista circa 2 km da casa nostra e noi abitiamo al sesto piano).

Devono affinare la loro sensibilità perché poi, fortunatamente, i disastri ambientali non sono mai avvenuti e al rientro in casa io ho solo trovato le tracce del loro fuga. Perché loro non sono disordinati, sono diversamente sensibili. Hanno talento.

zitti e buoni

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“Non avete diritto di fare sciopero, perché io ho preparato una lezione da fare questa mattina”

Li vogliamo così: zitti e buoni, grati di imparare chiusi nelle loro stanze. Isolati dal mondo e impegnati solo a rendere merito ai nostri sforzi per infilare nelle loro teste ciò che noi riteniamo gli serva. Non gli facciamo domande, l’obbedienza non richiede uno scambio. Non gli chiediamo opinioni, l’immagazzinamento di nozioni non prevede pensieri. Esigiamo obbedienza e fedeltà. E magari pure il buon umore, che la nostra giornata lavorativa è tanto difficile. Magari potessimo stare noi a casa tutto il giorno sul divano o sul letto, a seguir le lezioni in pigiama.

E qualcuno di loro, gli adolescenti, si sta abituando a questa asticella messa talmente in basso che per superarla basta strisciare per terra, comprimere ogni ambizione, sogno, speranza. Rinunciare a qualsiasi prospettiva. Che poi è l’esatto opposto della formazione. Perché nessuno si forma per l’oggi, ma per il domani. E se il domani glielo tolgono o evitano di parlarne in qualsiasi forma, allora chi glielo lo fa fare di sforzarsi oggi? A che pro dovrebbero seguire lezioni a distanza, togliersi il pigiama al mattino, fare i compiti al pomeriggio, rispettare le scadenze? Se nessuno parla di loro e sono scomparsi da qualsiasi discorso pubblico, da qualsiasi progetto politico o di società, perché dovrebbero impegnarsi oggi? Gli adolescenti sono fantasmi, di cui abbiamo smesso di occuparci. Vogliamo da loro obbedienza e fedeltà, come in un collegio o in una caserma (e la citazione dei due reality secondo me peggiori degli ultimi anni non è casuale).

Non hanno diritti e poi ci lamentiamo che non pensino di avere dei doveri, che non sentano il sacro fuoco a costruire il bene comune, a proteggere i deboli. Glielo chiedono quegli stessi adulti che aspettano (o accettano) i condoni, senza fare uno più uno e realizzare che le tasse non versate servivano a proteggere i deboli: i malati, gli anziani, i disabili, i bambini. E a costruire quelle strutture (fisiche o di relazioni) che di loro si potevano occupare: gli ospedali, i servizi sociali, i supporti alle famiglie, le scuole. Li abbiamo dimenticati in casa e in questa seconda versione del lockdown li abbiamo anche lasciati da soli. Perché noi adulti continuiamo a uscire e andare a lavorare, perché l’economia deve ripartire, i consumi devono ripartire, la produzione deve ripartire. Loro possono aspettare. Possono ancora fare un sacrificio per consentirci di costruire un futuro in cui non hanno diritto di parola.

C’è un’emergenza e non sto parlando di quella sanitaria. C’è un’emergenza di ruoli che si giocano sempre e soltanto nella relazione con un altro diverso da noi. In questa emergenza di ruoli gli adulti e il mondo che rappresentano diventano muri di gomma contro cui rimbalzano le proteste e le proposte degli adolescenti. Non esiste dialogo, mediazione, relazione: solo un continuo rimbalzarsi addosso che sfianca chiunque, sfibra ogni resistenza. E annichilisce qualsiasi desiderio di cambiamento. O qualsiasi desiderio e basta.

Bisogna trovare gli spilli per creare tanti piccoli buchi in quella superficie continua, liscia e lucida, fori che inizino a far sfiatare il monolite. Tante parole e azioni come spilli, per smettere di essere zitti e buoni e diventare parlanti e vivi. Che a stare zitti e buoni c’è sempre tempo da morti.

siamo entrati nel tunnel

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Eravamo sfuggiti fino a ora, scivolando tra un contatto stretto e l’altro, driblando compagni, colleghi, amici, vicini di casa, parenti. Avevamo passato indenni il 2020 e contavamo che il 2021 si aprisse con fiducia, speranza e buoni auspici. E invece febbraio ci ha sedotti e poi abbandonati. Illusi da un tampone negativo della figlia di mezzo eravamo convinti che la fortuna fosse dalla nostra parte e invece è caduto sul campo il figlio grande, risultato positivo il 2 febbraio, un giorno dopo la buona notizia di sua sorella. E così sperimentiamo anche noi l’isolamento di un membro della famiglia per ogni momento della giornata (dormire_mangiare_studiare_lavarsi_oziare_guardarelatv_leggere), passiamo alcol sulle maniglie delle porte, riceviamo il pane e il latte grazie a parenti che ce lo depositano nell’ascensore, siamo ripiombati nella didattica a distanza e nello smart working totale (e totalizzante) e i referenti dell’asl sono ormai i nostri migliori amici (ci chiamano un paio di volte al giorno).

Sì, mio figlio grande è positivo e ho anche cercato per qualche giorno di ricostruire la catena del contagio, ma non ne sono stata capace e in ogni caso (come ha sempre detto mio marito) è un esercizio inutile e dannoso. Perché l’unica cosa vera è che è stato contagiato perché vive in una società. Va a scuola (solo da due settimane, 6 giorni effettivi di didattica in presenza), come io vado a lavoro. Prende i mezzi pubblici, come li prendo io. Scambia due parole con i compagni di classe o con gli amici all’aperto, come faccio io con mia sorella sotto casa o con la mia collega mentre andiamo a ritirare il pranzo d’asporto. Fa sport distanziato e all’aperto, come lo faccio io quando vado a correre la domenica pomeriggio nel parco. Vive una vita che definire normale non si può, ma di cui aveva iniziato ad assaporare giorno per giorno ogni singola riconquista: la scuola in presenza, la ripresa dello sport (non ancora col contatto), le attività scout, un pomeriggio con un’amica.

Non c’è colpa nell’essere contagiato, perché ha fatto (come me) tutte le attenzioni necessarie: ha indossato la mascherina sempre, ha tenuto le distanze, ha rinunciato a feste, pranzi, partite di basket al campetto. Perché se fosse così difficile beccarsi sto virus, credete che ci sarebbero tutti questi contagi? Chi cerca nei contagiati il comportamento scorretto in fondo sta dicendo che “se la sono cercata” (quindi sono dei cretini) e a lui o lei non potrà mai capitare.

Mio figlio quasi 17enne è positivo, ma non ho mai avuto paura che lui portasse il virus in casa (come non ho paura che lo porti sua sorella 14enne o suo fratello di 10 anni). Perché tutti possiamo portarlo, perché tutti siamo tornati a fare le attività che sono consentite e per questa scelta non abbiamo alcun rammarico. Mio figlio quasi 17enne è positivo e mi sto tenendo distante da lui adesso, perché cedere alla voglia di abbracciarlo e dargli un bacio prima di andare a dormire sarebbe irresponsabile nei confronti degli altri due figli che sono bloccati in casa in quarantena. Ma non l’ho mai tenuto distante prima, l’ho abbracciato e baciato (solo quando me lo ha concesso), ho bevuto a volte nello stesso bicchiere suo e ho condiviso la normale vita di una famiglia. Gli ho ricordato di lavarsi le mani quando rientrava a casa, ma non l’ho ossessionato. Perché se avessi avuto paura di mio figlio avrei dovuto avere paura del mondo e di me stessa per prima, perché ognuno di noi può essere vettore, anche inconsapevolmente e senza responsabilità. E il problema non è eventualmente chi può contagiare nonni, ma il fatto stesso che i nonni possano essere contagiati (prima nota: la nonna 71enne è stata contagiata, negli stessi giorni del nipote e chissà chi dei due è stato vettore per l’altro; seconda nota: i miei figli hanno continuato a vedere i nonni in questi mesi, perché i nonni avevano bisogno del contatto con i nipoti per restare sani).

Mio figlio quasi 17enne è positivo al covid e noi 5 siamo tutti insieme sulla stessa barca, o meglio nella stessa casa. Il rischio zero nella vita non esiste e anche esistesse credo che quella non sarebbe la vita che vorrei vivere e che proporrei ai miei ragazzi. Mangiamo in posti diversi collegati con FaceTime e ci fanno ridere sempre le stesse cose: le battute cretine, i rutti, le prese in giro. Usciremo dal tunnel insieme, perché vivere distanti non è vivere.

pensavo di non aver voglia

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Quest’anno pensavo che non avrei comprato molti regali di Natale perché credevo di non aver voglia di farlo. Una stanchezza enorme, di mesi lunghissimi in casa, di ospedali e terapie, di saluti, di lacrime trattenute, di rabbia per decisioni che non condivido, posizioni che non capisco, comportamenti in cui non mi riconosco mi schiacciava la testa e come gli occhiali sul pullman al mattino si appannano per la mascherina, così si annebbiavano i giorni.

Credevo che non avrei avuto voglia di comprare qualcosa in quei negozi che sono aperti mentre i miei figli sono chiusi in casa a fare lezioni davanti a un computer da fine ottobre.

E invece.

Ho aperto come sempre casa ai folletti degli agnolotti di Natale, che hanno impastato, tirato, riempito, tagliato e confezionato dosi da reggimento che adesso dormono nel mio congelatore perché finché c’è ripieno si tira la pasta.

Ho fatto richieste gastronomiche perché a Natale si mangiano sempre le stesse cose: gli agnolotti, il salmone marinato, le olive all’ascolana, i vol au vent, l’insalata russa, gli spinaci al burro e le patate al forno. Ho dimenticato i cannoli, ma oggi non me la sono sentita di chiederli a mia suocera.

Ho preparato un calendario dell’avvento senza pretese, ma con dolci finalmente goduriosi perché i ragazzi hanno confessato che volevano quello anziché le storie che inventavo ogni anno. E così io mi sono rilassata e loro si sono goduti 24 giorni di schifezze.

E ho comprato regali, tanti e per poche persone, da parte mia e di altri sparsi. Non è che abbiamo bisogno dei pacchetti per sapere che ci vogliamo bene, ma in questo Natale l’unica cosa che conta per me è vedere felice la mia famiglia. Acciaccata, invecchiata, stanca. Ma felice di stare insieme, senza rimpianti e recriminazioni.

Ci mancherà qualcuno, non l’amore. Di quello ne abbiamo avuto in abbondanza anche quest’anno.

non vi fidate

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Ehi ragazzi, poco meno di un mese fa, vi dicevo che dovevate avere fiducia. Non so se mi abbiate ascoltato, forse non mi avete neanche letto. Io mi sono ascoltata, questo posso garantirvelo.

Ho coltivato la speranza ogni giorno, ho cercato di osservare ogni norma con scrupolo e coscienza, ho costruito in ogni momento il dopo domani, cercando di non farmi travolgere. Mi hanno chiesto di aspettare, mi hanno detto che le regole del gioco erano queste e io ho giocato. Ho seguito con attenzione e cura la vostra didattica a distanza, ho organizzato le stanze della casa perché ciascuno potesse fare l’attività online che aveva quel pomeriggio, ho fatto allenamenti di basket il sabato pomeriggio anche quando sarei voluta sprofondare sul divano.

Ho nutrito voi, nei pranzi condivisi quando sono in smart working, il vostro ottimismo e i nonni a turno, perché prenderci cura di loro è il nostro compito, mio e di papà. Non ho più visto un amico o un’amica, non ho abbracciato chi ha perso una mamma o una nonna, non ho dato spazio alla mia stanchezza enorme. Ho respirato, sorriso e smesso di mettere il rossetto, tutto sotto la mascherina.

Perché era il momento del sacrificio, dell’unità, della salita al colle insieme. Perché il gioco prevede fasi diverse e dopo quella più dura, quella rossa, avremmo visto dei risultati e avremmo potuto recuperare qualcosa del prima. Non gli amici, i pranzi fuori coi colleghi, il Natale coi nonni e la famiglia numerosa che abbiamo, gli abbracci, le vacanze in montagna in mezzo alla neve.

Ma almeno in parte la vostra scuola, le lezioni in aula, i compagni con cui entrare e uscire da quella che è la vostra casa. Perché papà e io vi insegniamo da quando avete un anno che il mondo è là fuori, dove potete condividere pensieri e azioni con gli altri, progetti, delusioni, vittorie. Con altri che non siamo noi, con chi vi accompagna e vi sostiene.

Abbiamo giocato e adesso ci cambiano le regole del gioco, ci spostano la meta, ci dicono che in fondo voi potete aspettare ancora e ancora. Non sanno cosa ci stanno togliendo: a voi il protagonismo dei vostri 13 e 16 anni. Non vi vedono chiusi in casa, spenti o su di giri, stanchi di guardare uno schermo dove tutto diventa uguale, la lezione come l’allenamento come l’attività scout come la festa dell’amico. A noi stanno togliendo gli strumenti per farvi crescere, per stimolarvi, per spronarvi a fare sempre del vostro meglio.

Vi avevo chiesto di avere fiducia, ma non ne ho più neanche io. Perché per avere fiducia bisogna avere di fronte qualcuno che merita rispetto e che rispetti noi come persone. Non ho fiducia in chi ha tradito le regole del gioco che ci ha chiesto di giocare. Non ho fiducia in chi vi mette al fondo delle priorità. Non ho fiducia in chi dice che siete voi a contagiare i nonni e gli anziani che stanno morendo. Non siete voi che non avete preparato gli ospedali per curarli e i medici sul territorio per farli restare a casa e con un’assistenza dignitosa. Non siete voi che non avete organizzato la logistica dei trasporti e di un sistema che rendesse possibile andare a lavorare e a scuola in sicurezza. Non siete voi che non state fermando il contagio attraverso un sistema di tracciamento efficiente e tempestivo.

Sono loro, quelli che cambiano le regole in corsa, che truccano i dati e vi rubano il presente e compromettono il vostro futuro.

Non vi fidate di loro, disobbedite.

cerco di spiegarvi una cosa

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Ehi ragazzi, sono io, la rompina che vi sta sempre addosso. Quella che sa dove sono le mutande, le calze e la verifica dei verbi dispersa. Quella che passa il tempo in casa a borbottare. Oggi cerco di spiegarvi una cosa, difficile anche per me. Oggi cerco di spiegarvi perché dobbiamo avere fiducia.

Dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni, che scriviamo con l’iniziale maiuscola: nello Stato, negli Enti Locali, nella Scuola. Perché la vita nel nostro mondo è così meravigliosamente complessa e articolata che ciascuno di noi deve delegare parte delle proprie scelte e decisioni a un organismo al di sopra degli individui singoli, capace di portare avanti la costruzione di un bene comune più ampio. Dobbiamo avere fiducia non solo quando le cose vanno bene, quando le risorse sono tante e le scelte sembrano le sfumature di una confezione da 72 di matite colorate. In quelle situazioni è facile essere democratici, ma non è lì che si mette alla prova la tenuta di questo sistema di convivenza civile. Quando le scelte impongono sacrifici, priorità da assegnare, rinunce e allocazione di risorse limitate (anzi, direi scarse): è allora che dobbiamo pensare che il bene comune sia indispensabile e sicuramente più importante del nostro bisogno personale impellente. E che quelle Istituzioni, le stesse che sbagliano, inciampano e cadono, sono l’unica strada possibile per uscire dalla crisi. E hanno bisogno della nostra fiducia, non cieca ma consapevole, responsabile e collaborativa.

Dobbiamo aver fiducia nel prossimo che incontriamo per strada. Non sto parlando dei nostri o vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri insegnanti e allenatori. Parlo dell’anziano sul pullman a cui cedete il posto, del vicino di casa che scende dall’ascensore e non vi saluta, del genitore del compagno di classe e del cassiere del supermercato. Dobbiamo fidarci del fatto che chi ci circonda non sia un nemico e non abbia l’obiettivo di fregarci. Non ci dobbiamo difendere, ma aprirci agli altri, accoglierli e farci accogliere, affidarci nelle difficoltà. Perché la vita in difesa è molto più faticosa e l’unico risultato che si ottiene (nella migliore delle ipotesi) è di non arretrare rispetto al proprio punto di partenza, quando invece voi avete gambe e cervello capaci di andare molto lontano. Non si tratta di guardare il mondo con gli occhiali rosa degli ingenui, ma di scegliere di utilizzare le proprie energie per condividere e propagare il buono e il bello.

Dobbiamo aver fiducia nel domani o almeno nel dopo domani. Non vuol dire aspettare che passi la tempesta, ma costruire oggi le vostre competenze, la vostra professionalità, il vostro essere uomini e donne. Con impegno, costanza, passione. Anche se quello che abbiamo intorno in questo momento è simile alla nebbia che da qualche mattina vediamo fuori dal nostro balcone. Mia mamma, la nonna, mi ha insegnato che quando al mattino c’è la nebbia poi nella giornata spunta il sole, lei che ogni mattina attraversava il Sangone per andare a fare la maestra in una scuola che in certe giornate sembrava immersa in una tazza di latte bianco. Non so quanto durerà questa mattina avvolta dalla nebbia e non so se il sole lo vedremo oggi o domani. O forse dopo domani. Ma tornerà e noi saremo pronti a spingere i nostri passi sulla strada, perché avremo preparato lo zaino, stretto i lacci degli scarponi e studiato la cartina.

Stringete i denti e la mano di chi avete vicino e nutrite la vostra fiducia nelle Istituzioni, nel prossimo, nel domani. In voi stessi.

ci vuole un risarcimento

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Io credo che debbano esserci ancora dei permessi Covid per i genitori. O un risarcimento, ma non in denaro. In ore di sonno, di svago. O anche di assenza.

Ogni giornata ne vale 4. Perché le procedure per ciascun luogo frequentato dai figli prevede un modulo, un form, un’autocertificazione, 27 firme e 45 giuramenti con la mano sinistra alzata e la destra appoggiata sull’ultimo DPCM. Tutto questo dopo aver misurato la febbre e aver fatto domande circostanziate, come “hai dormito bene? Hai bisogno di un intero pacchetto di fazzoletti oggi o ne basta uno per tutta la giornata?”. Perché si sa che i motivi per non andare a scuola sono sempre stati vari e creativi per ciascun minore sulla faccia della terra e il giusto e sacrosanto scrupolo attuale è per loro manna dal cielo.

Ogni giorno esci di casa con alcune certezze: alle 14,45 ci sarà la preparazione fisica laces, alle 15,25 la lezione di chitarra, alle 17 l’allenamento di basket e di trampolino, alle 18,30 l’altro allenamento di basket, alle 20,30 la riunione di catechismo (*). E hai già fatto i salti mortali per incastrare tutti gli accompagnamenti, utilizzato nonne, genitori di compagni di classe, trampoliniste neo patentate. E poi, tempo di fare il viaggio in tram da lavoro a casa e tutto si stravolge: il secondo basket è spostato e si sovrappone alla preparazione atletica, ma sarebbe importante fare tutte e due le cose e allora si cerca un altro incastro. Vai a dormire quasi certa di avere un quadro preciso della giornata in cui ti sveglierai, ma l’imprevisto è dietro l’angolo. E non si tratta di quel numero con una cifra dopo la virgola che ogni mattina aspetti trepidante mentre spari in fronte col termo scanner ai tuoi figli (ho visto una sola volta un 7 e ho tremato, ma fortunatamente dopo la virgola c’era uno zero che più tondo non si può). No, questa mattina erano tutti ampiamente sotto i 37. Ma c’è l’agitazione da squadra nuova di basket e magari un po’ di sonno e il fatto che negli ultimi 7 giorni abbiamo vissuto nel centrifuga insalata emotivo e ne siamo usciti tutti un po’ malconci. Fatto sta che un figlio che alle 7,40 sta sul divano con gli occhi pieni di lacrime e ti dice che non si sente bene (perché non vuole andare all’allenamento di basket) ti obbliga a ricambiare i programmi e avvisare la mamma dell’amico (grazie, non mi serve più il passaggio in palestra), la nonna 1 (grazie, non devi più correre tra una nipotina e l’altro), la nonna 2 (grazie, oggi li prendi tutti tu e nei vari accompagnamenti avrai in macchina il pieno di lacrime di questa mattina).

Era già complicata la mia vita 12 mesi fa, con tre figli e un lavoro. Ma quest’anno mi sembra di superare ogni giorno le 12 fatiche di Ercole, tra moduli e burocrazia, norme igieniche, antenne sempre pronte a captare malesseri che possano essere fonte di contagio. E poi cambiamenti di programma continui, perché appena c’è un compagno di classe o di sport che forse è passato di fianco a uno che conosceva un altro che ha preso l’ascensore dopo il signore del quinto piano e ha schiacciato anche lui il tasto del piano terra e il signore del quinto piano ha un amico del bar che è risultato positivo al Covid (e “chealmercatomiopadrecomprò”), tutti gli impegni vengono messi in discussione perché bisogna evitare di incontrarsi, anche solo per errore.

Non mi sto lamentando, non ho intenzione di smettere di compilare i moduli, controllare che abbiano sempre le mascherine in cartella o misurare la febbre, giurare sui DPCM e sulla testa di Conte. Ma sono stanca, come se fossimo già al 2022, e sono sicura che la mia faccia lo dica a tutti.

(*) questi sono gli impegni, di oggi, dei miei figli. Lo giuro, sulla testa mia.

un’alleanza

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Dicevamo che saremmo stati migliori. Che avremmo abbracciato vicini e lontani, che avremmo capito cosa conta davvero: gli aspetti educativi della scuola e non solo quelli normativi, la relazione tra le persone, la vita all’aria aperta, il valore della professionalità di ciascuno (abbiamo applaudito dai balconi per medici, infermieri, netturbini, commessi del supermercato, genitori, dogsitter e cani, runner, zii e cugini di settimo grado, parcheggiatori abusivi e ovviamente scienziati fino a toglierci la pelle dalle mani).

Dicevamo.

E poi siamo tornati pian piano alla vita quotidiana. Con un’ansia per le norme che sembra farci dimenticare tutto il resto. Soprattutto ci fa dimenticare che quello che serve è un’alleanza. Tra i genitori e la scuola, che ha fatto un lavoro enorme per mettere nelle stesse aule tutti gli alunni di una classe. E se la finestra è ancora rotta, possiamo capire che la mancanza non è della dirigente o della professoressa di italiano. E sì, hanno sollecitato e lo fanno tutti i giorni a prescindere dalle nostre segnalazioni, perché la scuola sta loro a cuore.

Possiamo come maestre accogliere i genitori che accompagnano i bambini nel cortile della scuola elementare all’ora precisa definita dalle nuove norme con un sorriso e chiedere, sempre con il sorriso, che entrino solo alle 8 in punto, perché altrimenti il cortile si riempie di persone e il distanziamento ce lo dimentichiamo. E possiamo anche chiederci se l’ingresso allo scoccare dell’ora sia risolutivo o se l’assembramento semplicemente si creerà sul marciapiedi fuori dalla scuola e allora nella sostanza, sarà la stessa cosa.

Possiamo pensare che ciascuno sta facendo il proprio lavoro con mille dubbi, senza sapere cosa sia meglio, con il bisogno che gli altri suggeriscano miglioramenti partendo però dal presupposto che dietro quella scelta c’è molto ragionamento, molta buona volontà, molta competenza. E questo merita comunque rispetto.

Possiamo stringere un’alleanza, capire che siamo tutti dalla stessa parte, con l’obiettivo di tornare a portare i bambini e i ragazzi a scuola non solo perché gli adulti devono tornare a lavorare, ma perché la scuola (e anche il lavoro) è socialità, crescita, confronto e incontro, costruzione della propria identità, realizzazione di sé.

Possiamo iniziare a guardarci negli occhi e tirarci su le maniche, per costruire insieme. Perché indossiamo la stessa casacca e siamo nella stessa squadra: quella degli esseri umani.

il campo continua

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«40 anni fa don Andrea Ghetti – BADEN terminava la sua corsa terrena, a causa di un incidente d’auto durante la Route in Francia con il suo Clan Milano 1. L’ultimo messaggio che lasciò ai suoi ragazzi è «il campo continua». The show must go on. Quella Route finì bruscamente e la ripresa fu dura. Ma si continuò.»

Quello qui sopra è uno stralcio di un post del gruppo facebook Fedeli e Ribelli che continua a raccontare e a condividere il messaggio delle Aquile Randagie, gli scout che durante il fascismo continuarono a fare attività in clandestinità in val Codera e portarono avanti i valori dello scoutismo.
Questi sarebbero giorni di campi, me lo ricorda costantemente il mio calendario del cellulare. Sarebbero giorni in cui pensarli felici, con le mani e le ginocchia sporche, le labbra secche per il sole, la voce roca per i canti. Sarebbero giorni in cui iniziare a pensare a cosa portare alla giornata dei genitori: il pollo fritto (anche quello con l’impanatura senza glutine per Cristiana) e l’insalata di pasta, la parmigiana con cui Micaela e Silvia si sfidano e ancora non abbiamo deciso chi la faccia più buona, la pizza di pasta di Fortuna, i rotolini con la nutella di Patrizia, l’anguria che segna proprio l’inizio delle vacanze. Sarebbero giorni di cammino, giochi, condivisione, fatica, impegno, verifica.

Invece gli zaini sono appesi letteralmente al chiodo nel nostro sgabuzzino, le camicie stirate nell’armadio, gli scarponcini fermi nella scarpiera del balcone. La bussola continua a segnare il nord, ma non ci sono passi per raggiungerlo. Dopo la scuola, i viaggi oltreoceano e gli abbracci siamo rimasti anche senza campi. Dico siamo perché anche se sono i figli a indossare i pantaloncini di velluto e a mettere al collo un fazzolettone, tutti e 5 viviamo lo scoutismo che, come “sente” benissimo chi lo conosce, è una scelta educativa di famiglia.

La ripresa è stata – per chi non ha ricominciato sarà – dura, ma per quanto sia diverso e difficile si deve continuare. Lo scoutismo deve continuare perché questa società ne ha fortemente bisogno. Perché ancora non ho trovato un altro ambiente educativo in cui il centro riescano a essere contemporaneamente l’individuo e la comunità. Un ambiente in cui si faccia esperienza di impegno, responsabilità, condivisione, speranza, progettualità. Un luogo in cui si cresce insieme – bambini, ragazzi, adulti, famiglie – nel rispetto reciproco, nell’autonomia, nella corresponsabilità, nell’autoeducazione. Nella correzione fraterna, che vuol dire sentire la responsabilità di osservare se stessi e gli altri per capire gli errori di ciascuno e mettersi uno a fianco dell’altro per correggerli e crescere. Aiutarsi e aiutare gli altri a fare sempre del proprio meglio.

Lo scoutismo deve continuare, trasformandosi, a rispondere alle sfide dei tempi, momentanee o stabili che siano. Gli strumenti del metodo si evolveranno, le tradizioni e le abitudini di ogni singolo gruppo cambieranno con il contesto e le persone che vivono in quella comunità, si faranno cose diverse in modi diversi. Ma resterà il cuore di tutto: l’educazione che mette al centro bambini e bambine e il loro impegno per fare del proprio meglio, ragazzi e ragazze e la capacità di essere pronti a cogliere ciò che la vita offre, uomini e donne e la scoperta della felicità nel mettersi al servizio degli altri, per costruire una società giusta, leale, accogliente.

“nessun profumo vale l’odore di quel fuoco…”: abbiamo bisogno di continuare a sentirlo.

trova le differenze

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C’è la mamma che si preoccupa. Fa mille raccomandazioni, verifiche e controlli su ciò che devono fare gli altri affinché la sua progenie arrivi sana e salva alla destinazione che ha in mente: la scuola media a due isolati da casa, il centro sportivo a due pullman di distanza, il supermercato di quartiere. Vive vedendo pericoli a ogni angolo, drammi in agguato e ovviamente complotti alle spalle del proprio cucciolo.

La mamma che si preoccupa prenota i libri scolastici prima ancora che il bambino o ragazzo in questione vada a scuola, chiede nella chat di classe l’elenco del materiale per l’anno nuovo il primo giorno di vacanza, fa un breve sondaggio per sapere chi parteciperà allo sciopero del giorno dopo in seconda superiore, conosce alla perfezione le previsioni del tempo in occasione di qualsiasi gita o uscita scolastica, in pieno lockdown vorrebbe entrare a scuola per recuperare il sacchetto igienico in modo da poter lavare tutto il lavabile (forse anche le copertine di plastica dei quaderni).

La mamma che si preoccupa fa video chiamate continue coi pargoli dall’ufficio, piomba di fianco alle scrivanie dei colleghi brandendo un cellulare da cui escono le urla di un minore che non ha ancora capito che ci sono i momenti giusti e quelli sbagliati per salutare le colleghe delle mamma e che si può usare un tono di voce normale e non sempre da gallina strozzata o da cartone animato. Tu stai scrivendo il progetto della vita e lei entra nella stanza col viva voce attivo, viene di fianco a te (che continui a tenere lo sguardo fisso sul computer, fingendoti imbalsamata) e ti piazza il telefono davanti al naso perché “la mia bambina vuole tanto tanto salutarti”. La mamma che si preoccupa quando può scegliere se usare 10 o 100 parole per rispondere alla domanda “come va la scuola di XY?” quasi sicuramente deciderà di usarne 110, per farti un quadro completo della situazione.

La mamma che si preoccupa è molto concentrata sulla sua missione di vita: evitare qualsiasi trauma alla creatura. Banditi i giochi competitivi, bandito ogni scontro verbale più o meno acceso, bandita ogni opinione diversa. Chiunque si interponga tra la creatura e la sua libera volontà si sentirà un pippone galattico di quanto ogni nota, sgridata, correzione, disappunto mini l’equilibrio psicofisico della creatura stessa, la costruzione della sua autostima e la realizzazione di un futuro radioso. Che questo voglia dire non avere consapevolezza dei propri limiti non è qualcosa che impensierisce la mamma che si preoccupa: il limite è solo uno stato mentale.

La mamma che si preoccupa fa tutte queste cose e qualcuna in più. Salvo poi arrivare costantemente in ritardo a prendere i figli a qualsiasi attività, farli arrivare il giorno sbagliato alle prove generali del concerto, del saggio o di qualsiasi cosa (e dire che non li hanno avvisati per tempo), imbarazzarli davanti agli amici (come quando mia nonna prendeva dalla borsa il fazzoletto e mi diceva “vieni qui che ti pulisco il muso” dopo che avevo mangiato il gelato).

La mamma che si occupa punzecchia i figli perché trovino informazioni sui treni e sui percorsi per andare in montagna con gli amici (più piccoli di lui e di cui sarà responsabile), ascolta la logistica organizzata dal 16enne e da dei consigli, passa molto tempo a confrontarsi e poco a fare. Non controlla, ma resta lì, nel caso servisse ancora un consiglio. La mamma che si occupa fa il percorso in pullman fino al centro sportivo con la figlia, osserva insieme le strade, i negozi, i punti di riferimento; fa scaricare l’app e insegna a usarla e poi ha il telefono vicino quando per la prima volta la 13enne in questione prenderà il pullman da sola per tornare a casa della nonna: non chiama, ma resta lì, nel caso servisse un incoraggiamento.

La mamma che si occupa non sa cosa stiano facendo i figli nel programma di tecnologia o di italiano e neanche se nella prossima settimana ci saranno tre interrogazioni e due compiti in classe. Ma a cena i racconti delle giornate di tutti i membri della famiglia si sovrappongono e spesso vengono fuori le cose più importanti della scuola: la discussione col compagno o con l’insegnante, la lezione molto interessante o noiosa, i progetti nuovi e le normali paure.

La mamma che si occupa a volte chiama i figli durante il giorno e a volte no, perché si fa prendere dal lavoro e dalle cose da fare, perché a pranzo esce coi colleghi e chiacchiera con loro, perché pensa che poi comunque ci rivedremo a casa tra poco. A volte chiama e chiede come è andata la mattinata, risponde quasi sempre ai loro messaggi e alle chiamate: a volte sono stupidaggini, altre volte cose più importanti. Le video chiamate non fanno parte delle sue abitudini quotidiane e il viva voce è un tasto sconosciuto.

La mamma che si occupa racconta che il confronto tra persone con opinioni diverse a volte può essere acceso, ma non deve mai prescindere dal rispetto e dalla correttezza verso l’altro. La critica è la benvenuta in ogni discussione, a patto che sia per costruire e non per demolire e che si usi lo stesso rigore nell’osservare se stessi e gli altri. La mamma che si occupa stimola la competizione verso se stessi, insegna che i limiti esistono e ci si deve arrivare molto vicino per conoscerli e imparare a superarli, quando si può. In qualche caso bisogna accettarli e usare tutta la propria forza di volontà e intelligenza per trovare soluzioni alternative.

La mamma che si occupa lascia autonomia e usa la maggior parte del suo tempo per fornire gli strumenti per camminare da soli e avventurarsi fuori dal recinto, non per controllare o chiudere il cancello. Resta sulla stessa strada e osserva il viaggio, intervenendo solo se veramente necessario o se richiesto. Si affida ai figli (e un po’ anche alla fortuna) e alla loro capacità di imparare dagli errori e rialzarsi da soli. Vive e lascia vivere, con tutti i rischi che questo comporta. Con tutta la bellezza che questo comporta.