zitti e buoni

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“Non avete diritto di fare sciopero, perché io ho preparato una lezione da fare questa mattina”

Li vogliamo così: zitti e buoni, grati di imparare chiusi nelle loro stanze. Isolati dal mondo e impegnati solo a rendere merito ai nostri sforzi per infilare nelle loro teste ciò che noi riteniamo gli serva. Non gli facciamo domande, l’obbedienza non richiede uno scambio. Non gli chiediamo opinioni, l’immagazzinamento di nozioni non prevede pensieri. Esigiamo obbedienza e fedeltà. E magari pure il buon umore, che la nostra giornata lavorativa è tanto difficile. Magari potessimo stare noi a casa tutto il giorno sul divano o sul letto, a seguir le lezioni in pigiama.

E qualcuno di loro, gli adolescenti, si sta abituando a questa asticella messa talmente in basso che per superarla basta strisciare per terra, comprimere ogni ambizione, sogno, speranza. Rinunciare a qualsiasi prospettiva. Che poi è l’esatto opposto della formazione. Perché nessuno si forma per l’oggi, ma per il domani. E se il domani glielo tolgono o evitano di parlarne in qualsiasi forma, allora chi glielo lo fa fare di sforzarsi oggi? A che pro dovrebbero seguire lezioni a distanza, togliersi il pigiama al mattino, fare i compiti al pomeriggio, rispettare le scadenze? Se nessuno parla di loro e sono scomparsi da qualsiasi discorso pubblico, da qualsiasi progetto politico o di società, perché dovrebbero impegnarsi oggi? Gli adolescenti sono fantasmi, di cui abbiamo smesso di occuparci. Vogliamo da loro obbedienza e fedeltà, come in un collegio o in una caserma (e la citazione dei due reality secondo me peggiori degli ultimi anni non è casuale).

Non hanno diritti e poi ci lamentiamo che non pensino di avere dei doveri, che non sentano il sacro fuoco a costruire il bene comune, a proteggere i deboli. Glielo chiedono quegli stessi adulti che aspettano (o accettano) i condoni, senza fare uno più uno e realizzare che le tasse non versate servivano a proteggere i deboli: i malati, gli anziani, i disabili, i bambini. E a costruire quelle strutture (fisiche o di relazioni) che di loro si potevano occupare: gli ospedali, i servizi sociali, i supporti alle famiglie, le scuole. Li abbiamo dimenticati in casa e in questa seconda versione del lockdown li abbiamo anche lasciati da soli. Perché noi adulti continuiamo a uscire e andare a lavorare, perché l’economia deve ripartire, i consumi devono ripartire, la produzione deve ripartire. Loro possono aspettare. Possono ancora fare un sacrificio per consentirci di costruire un futuro in cui non hanno diritto di parola.

C’è un’emergenza e non sto parlando di quella sanitaria. C’è un’emergenza di ruoli che si giocano sempre e soltanto nella relazione con un altro diverso da noi. In questa emergenza di ruoli gli adulti e il mondo che rappresentano diventano muri di gomma contro cui rimbalzano le proteste e le proposte degli adolescenti. Non esiste dialogo, mediazione, relazione: solo un continuo rimbalzarsi addosso che sfianca chiunque, sfibra ogni resistenza. E annichilisce qualsiasi desiderio di cambiamento. O qualsiasi desiderio e basta.

Bisogna trovare gli spilli per creare tanti piccoli buchi in quella superficie continua, liscia e lucida, fori che inizino a far sfiatare il monolite. Tante parole e azioni come spilli, per smettere di essere zitti e buoni e diventare parlanti e vivi. Che a stare zitti e buoni c’è sempre tempo da morti.

non vi fidate

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Ehi ragazzi, poco meno di un mese fa, vi dicevo che dovevate avere fiducia. Non so se mi abbiate ascoltato, forse non mi avete neanche letto. Io mi sono ascoltata, questo posso garantirvelo.

Ho coltivato la speranza ogni giorno, ho cercato di osservare ogni norma con scrupolo e coscienza, ho costruito in ogni momento il dopo domani, cercando di non farmi travolgere. Mi hanno chiesto di aspettare, mi hanno detto che le regole del gioco erano queste e io ho giocato. Ho seguito con attenzione e cura la vostra didattica a distanza, ho organizzato le stanze della casa perché ciascuno potesse fare l’attività online che aveva quel pomeriggio, ho fatto allenamenti di basket il sabato pomeriggio anche quando sarei voluta sprofondare sul divano.

Ho nutrito voi, nei pranzi condivisi quando sono in smart working, il vostro ottimismo e i nonni a turno, perché prenderci cura di loro è il nostro compito, mio e di papà. Non ho più visto un amico o un’amica, non ho abbracciato chi ha perso una mamma o una nonna, non ho dato spazio alla mia stanchezza enorme. Ho respirato, sorriso e smesso di mettere il rossetto, tutto sotto la mascherina.

Perché era il momento del sacrificio, dell’unità, della salita al colle insieme. Perché il gioco prevede fasi diverse e dopo quella più dura, quella rossa, avremmo visto dei risultati e avremmo potuto recuperare qualcosa del prima. Non gli amici, i pranzi fuori coi colleghi, il Natale coi nonni e la famiglia numerosa che abbiamo, gli abbracci, le vacanze in montagna in mezzo alla neve.

Ma almeno in parte la vostra scuola, le lezioni in aula, i compagni con cui entrare e uscire da quella che è la vostra casa. Perché papà e io vi insegniamo da quando avete un anno che il mondo è là fuori, dove potete condividere pensieri e azioni con gli altri, progetti, delusioni, vittorie. Con altri che non siamo noi, con chi vi accompagna e vi sostiene.

Abbiamo giocato e adesso ci cambiano le regole del gioco, ci spostano la meta, ci dicono che in fondo voi potete aspettare ancora e ancora. Non sanno cosa ci stanno togliendo: a voi il protagonismo dei vostri 13 e 16 anni. Non vi vedono chiusi in casa, spenti o su di giri, stanchi di guardare uno schermo dove tutto diventa uguale, la lezione come l’allenamento come l’attività scout come la festa dell’amico. A noi stanno togliendo gli strumenti per farvi crescere, per stimolarvi, per spronarvi a fare sempre del vostro meglio.

Vi avevo chiesto di avere fiducia, ma non ne ho più neanche io. Perché per avere fiducia bisogna avere di fronte qualcuno che merita rispetto e che rispetti noi come persone. Non ho fiducia in chi ha tradito le regole del gioco che ci ha chiesto di giocare. Non ho fiducia in chi vi mette al fondo delle priorità. Non ho fiducia in chi dice che siete voi a contagiare i nonni e gli anziani che stanno morendo. Non siete voi che non avete preparato gli ospedali per curarli e i medici sul territorio per farli restare a casa e con un’assistenza dignitosa. Non siete voi che non avete organizzato la logistica dei trasporti e di un sistema che rendesse possibile andare a lavorare e a scuola in sicurezza. Non siete voi che non state fermando il contagio attraverso un sistema di tracciamento efficiente e tempestivo.

Sono loro, quelli che cambiano le regole in corsa, che truccano i dati e vi rubano il presente e compromettono il vostro futuro.

Non vi fidate di loro, disobbedite.

cerco di spiegarvi una cosa

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Ehi ragazzi, sono io, la rompina che vi sta sempre addosso. Quella che sa dove sono le mutande, le calze e la verifica dei verbi dispersa. Quella che passa il tempo in casa a borbottare. Oggi cerco di spiegarvi una cosa, difficile anche per me. Oggi cerco di spiegarvi perché dobbiamo avere fiducia.

Dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni, che scriviamo con l’iniziale maiuscola: nello Stato, negli Enti Locali, nella Scuola. Perché la vita nel nostro mondo è così meravigliosamente complessa e articolata che ciascuno di noi deve delegare parte delle proprie scelte e decisioni a un organismo al di sopra degli individui singoli, capace di portare avanti la costruzione di un bene comune più ampio. Dobbiamo avere fiducia non solo quando le cose vanno bene, quando le risorse sono tante e le scelte sembrano le sfumature di una confezione da 72 di matite colorate. In quelle situazioni è facile essere democratici, ma non è lì che si mette alla prova la tenuta di questo sistema di convivenza civile. Quando le scelte impongono sacrifici, priorità da assegnare, rinunce e allocazione di risorse limitate (anzi, direi scarse): è allora che dobbiamo pensare che il bene comune sia indispensabile e sicuramente più importante del nostro bisogno personale impellente. E che quelle Istituzioni, le stesse che sbagliano, inciampano e cadono, sono l’unica strada possibile per uscire dalla crisi. E hanno bisogno della nostra fiducia, non cieca ma consapevole, responsabile e collaborativa.

Dobbiamo aver fiducia nel prossimo che incontriamo per strada. Non sto parlando dei nostri o vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri insegnanti e allenatori. Parlo dell’anziano sul pullman a cui cedete il posto, del vicino di casa che scende dall’ascensore e non vi saluta, del genitore del compagno di classe e del cassiere del supermercato. Dobbiamo fidarci del fatto che chi ci circonda non sia un nemico e non abbia l’obiettivo di fregarci. Non ci dobbiamo difendere, ma aprirci agli altri, accoglierli e farci accogliere, affidarci nelle difficoltà. Perché la vita in difesa è molto più faticosa e l’unico risultato che si ottiene (nella migliore delle ipotesi) è di non arretrare rispetto al proprio punto di partenza, quando invece voi avete gambe e cervello capaci di andare molto lontano. Non si tratta di guardare il mondo con gli occhiali rosa degli ingenui, ma di scegliere di utilizzare le proprie energie per condividere e propagare il buono e il bello.

Dobbiamo aver fiducia nel domani o almeno nel dopo domani. Non vuol dire aspettare che passi la tempesta, ma costruire oggi le vostre competenze, la vostra professionalità, il vostro essere uomini e donne. Con impegno, costanza, passione. Anche se quello che abbiamo intorno in questo momento è simile alla nebbia che da qualche mattina vediamo fuori dal nostro balcone. Mia mamma, la nonna, mi ha insegnato che quando al mattino c’è la nebbia poi nella giornata spunta il sole, lei che ogni mattina attraversava il Sangone per andare a fare la maestra in una scuola che in certe giornate sembrava immersa in una tazza di latte bianco. Non so quanto durerà questa mattina avvolta dalla nebbia e non so se il sole lo vedremo oggi o domani. O forse dopo domani. Ma tornerà e noi saremo pronti a spingere i nostri passi sulla strada, perché avremo preparato lo zaino, stretto i lacci degli scarponi e studiato la cartina.

Stringete i denti e la mano di chi avete vicino e nutrite la vostra fiducia nelle Istituzioni, nel prossimo, nel domani. In voi stessi.

un’alleanza

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Dicevamo che saremmo stati migliori. Che avremmo abbracciato vicini e lontani, che avremmo capito cosa conta davvero: gli aspetti educativi della scuola e non solo quelli normativi, la relazione tra le persone, la vita all’aria aperta, il valore della professionalità di ciascuno (abbiamo applaudito dai balconi per medici, infermieri, netturbini, commessi del supermercato, genitori, dogsitter e cani, runner, zii e cugini di settimo grado, parcheggiatori abusivi e ovviamente scienziati fino a toglierci la pelle dalle mani).

Dicevamo.

E poi siamo tornati pian piano alla vita quotidiana. Con un’ansia per le norme che sembra farci dimenticare tutto il resto. Soprattutto ci fa dimenticare che quello che serve è un’alleanza. Tra i genitori e la scuola, che ha fatto un lavoro enorme per mettere nelle stesse aule tutti gli alunni di una classe. E se la finestra è ancora rotta, possiamo capire che la mancanza non è della dirigente o della professoressa di italiano. E sì, hanno sollecitato e lo fanno tutti i giorni a prescindere dalle nostre segnalazioni, perché la scuola sta loro a cuore.

Possiamo come maestre accogliere i genitori che accompagnano i bambini nel cortile della scuola elementare all’ora precisa definita dalle nuove norme con un sorriso e chiedere, sempre con il sorriso, che entrino solo alle 8 in punto, perché altrimenti il cortile si riempie di persone e il distanziamento ce lo dimentichiamo. E possiamo anche chiederci se l’ingresso allo scoccare dell’ora sia risolutivo o se l’assembramento semplicemente si creerà sul marciapiedi fuori dalla scuola e allora nella sostanza, sarà la stessa cosa.

Possiamo pensare che ciascuno sta facendo il proprio lavoro con mille dubbi, senza sapere cosa sia meglio, con il bisogno che gli altri suggeriscano miglioramenti partendo però dal presupposto che dietro quella scelta c’è molto ragionamento, molta buona volontà, molta competenza. E questo merita comunque rispetto.

Possiamo stringere un’alleanza, capire che siamo tutti dalla stessa parte, con l’obiettivo di tornare a portare i bambini e i ragazzi a scuola non solo perché gli adulti devono tornare a lavorare, ma perché la scuola (e anche il lavoro) è socialità, crescita, confronto e incontro, costruzione della propria identità, realizzazione di sé.

Possiamo iniziare a guardarci negli occhi e tirarci su le maniche, per costruire insieme. Perché indossiamo la stessa casacca e siamo nella stessa squadra: quella degli esseri umani.

il campo continua

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«40 anni fa don Andrea Ghetti – BADEN terminava la sua corsa terrena, a causa di un incidente d’auto durante la Route in Francia con il suo Clan Milano 1. L’ultimo messaggio che lasciò ai suoi ragazzi è «il campo continua». The show must go on. Quella Route finì bruscamente e la ripresa fu dura. Ma si continuò.»

Quello qui sopra è uno stralcio di un post del gruppo facebook Fedeli e Ribelli che continua a raccontare e a condividere il messaggio delle Aquile Randagie, gli scout che durante il fascismo continuarono a fare attività in clandestinità in val Codera e portarono avanti i valori dello scoutismo.
Questi sarebbero giorni di campi, me lo ricorda costantemente il mio calendario del cellulare. Sarebbero giorni in cui pensarli felici, con le mani e le ginocchia sporche, le labbra secche per il sole, la voce roca per i canti. Sarebbero giorni in cui iniziare a pensare a cosa portare alla giornata dei genitori: il pollo fritto (anche quello con l’impanatura senza glutine per Cristiana) e l’insalata di pasta, la parmigiana con cui Micaela e Silvia si sfidano e ancora non abbiamo deciso chi la faccia più buona, la pizza di pasta di Fortuna, i rotolini con la nutella di Patrizia, l’anguria che segna proprio l’inizio delle vacanze. Sarebbero giorni di cammino, giochi, condivisione, fatica, impegno, verifica.

Invece gli zaini sono appesi letteralmente al chiodo nel nostro sgabuzzino, le camicie stirate nell’armadio, gli scarponcini fermi nella scarpiera del balcone. La bussola continua a segnare il nord, ma non ci sono passi per raggiungerlo. Dopo la scuola, i viaggi oltreoceano e gli abbracci siamo rimasti anche senza campi. Dico siamo perché anche se sono i figli a indossare i pantaloncini di velluto e a mettere al collo un fazzolettone, tutti e 5 viviamo lo scoutismo che, come “sente” benissimo chi lo conosce, è una scelta educativa di famiglia.

La ripresa è stata – per chi non ha ricominciato sarà – dura, ma per quanto sia diverso e difficile si deve continuare. Lo scoutismo deve continuare perché questa società ne ha fortemente bisogno. Perché ancora non ho trovato un altro ambiente educativo in cui il centro riescano a essere contemporaneamente l’individuo e la comunità. Un ambiente in cui si faccia esperienza di impegno, responsabilità, condivisione, speranza, progettualità. Un luogo in cui si cresce insieme – bambini, ragazzi, adulti, famiglie – nel rispetto reciproco, nell’autonomia, nella corresponsabilità, nell’autoeducazione. Nella correzione fraterna, che vuol dire sentire la responsabilità di osservare se stessi e gli altri per capire gli errori di ciascuno e mettersi uno a fianco dell’altro per correggerli e crescere. Aiutarsi e aiutare gli altri a fare sempre del proprio meglio.

Lo scoutismo deve continuare, trasformandosi, a rispondere alle sfide dei tempi, momentanee o stabili che siano. Gli strumenti del metodo si evolveranno, le tradizioni e le abitudini di ogni singolo gruppo cambieranno con il contesto e le persone che vivono in quella comunità, si faranno cose diverse in modi diversi. Ma resterà il cuore di tutto: l’educazione che mette al centro bambini e bambine e il loro impegno per fare del proprio meglio, ragazzi e ragazze e la capacità di essere pronti a cogliere ciò che la vita offre, uomini e donne e la scoperta della felicità nel mettersi al servizio degli altri, per costruire una società giusta, leale, accogliente.

“nessun profumo vale l’odore di quel fuoco…”: abbiamo bisogno di continuare a sentirlo.

trova le differenze

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C’è la mamma che si preoccupa. Fa mille raccomandazioni, verifiche e controlli su ciò che devono fare gli altri affinché la sua progenie arrivi sana e salva alla destinazione che ha in mente: la scuola media a due isolati da casa, il centro sportivo a due pullman di distanza, il supermercato di quartiere. Vive vedendo pericoli a ogni angolo, drammi in agguato e ovviamente complotti alle spalle del proprio cucciolo.

La mamma che si preoccupa prenota i libri scolastici prima ancora che il bambino o ragazzo in questione vada a scuola, chiede nella chat di classe l’elenco del materiale per l’anno nuovo il primo giorno di vacanza, fa un breve sondaggio per sapere chi parteciperà allo sciopero del giorno dopo in seconda superiore, conosce alla perfezione le previsioni del tempo in occasione di qualsiasi gita o uscita scolastica, in pieno lockdown vorrebbe entrare a scuola per recuperare il sacchetto igienico in modo da poter lavare tutto il lavabile (forse anche le copertine di plastica dei quaderni).

La mamma che si preoccupa fa video chiamate continue coi pargoli dall’ufficio, piomba di fianco alle scrivanie dei colleghi brandendo un cellulare da cui escono le urla di un minore che non ha ancora capito che ci sono i momenti giusti e quelli sbagliati per salutare le colleghe delle mamma e che si può usare un tono di voce normale e non sempre da gallina strozzata o da cartone animato. Tu stai scrivendo il progetto della vita e lei entra nella stanza col viva voce attivo, viene di fianco a te (che continui a tenere lo sguardo fisso sul computer, fingendoti imbalsamata) e ti piazza il telefono davanti al naso perché “la mia bambina vuole tanto tanto salutarti”. La mamma che si preoccupa quando può scegliere se usare 10 o 100 parole per rispondere alla domanda “come va la scuola di XY?” quasi sicuramente deciderà di usarne 110, per farti un quadro completo della situazione.

La mamma che si preoccupa è molto concentrata sulla sua missione di vita: evitare qualsiasi trauma alla creatura. Banditi i giochi competitivi, bandito ogni scontro verbale più o meno acceso, bandita ogni opinione diversa. Chiunque si interponga tra la creatura e la sua libera volontà si sentirà un pippone galattico di quanto ogni nota, sgridata, correzione, disappunto mini l’equilibrio psicofisico della creatura stessa, la costruzione della sua autostima e la realizzazione di un futuro radioso. Che questo voglia dire non avere consapevolezza dei propri limiti non è qualcosa che impensierisce la mamma che si preoccupa: il limite è solo uno stato mentale.

La mamma che si preoccupa fa tutte queste cose e qualcuna in più. Salvo poi arrivare costantemente in ritardo a prendere i figli a qualsiasi attività, farli arrivare il giorno sbagliato alle prove generali del concerto, del saggio o di qualsiasi cosa (e dire che non li hanno avvisati per tempo), imbarazzarli davanti agli amici (come quando mia nonna prendeva dalla borsa il fazzoletto e mi diceva “vieni qui che ti pulisco il muso” dopo che avevo mangiato il gelato).

La mamma che si occupa punzecchia i figli perché trovino informazioni sui treni e sui percorsi per andare in montagna con gli amici (più piccoli di lui e di cui sarà responsabile), ascolta la logistica organizzata dal 16enne e da dei consigli, passa molto tempo a confrontarsi e poco a fare. Non controlla, ma resta lì, nel caso servisse ancora un consiglio. La mamma che si occupa fa il percorso in pullman fino al centro sportivo con la figlia, osserva insieme le strade, i negozi, i punti di riferimento; fa scaricare l’app e insegna a usarla e poi ha il telefono vicino quando per la prima volta la 13enne in questione prenderà il pullman da sola per tornare a casa della nonna: non chiama, ma resta lì, nel caso servisse un incoraggiamento.

La mamma che si occupa non sa cosa stiano facendo i figli nel programma di tecnologia o di italiano e neanche se nella prossima settimana ci saranno tre interrogazioni e due compiti in classe. Ma a cena i racconti delle giornate di tutti i membri della famiglia si sovrappongono e spesso vengono fuori le cose più importanti della scuola: la discussione col compagno o con l’insegnante, la lezione molto interessante o noiosa, i progetti nuovi e le normali paure.

La mamma che si occupa a volte chiama i figli durante il giorno e a volte no, perché si fa prendere dal lavoro e dalle cose da fare, perché a pranzo esce coi colleghi e chiacchiera con loro, perché pensa che poi comunque ci rivedremo a casa tra poco. A volte chiama e chiede come è andata la mattinata, risponde quasi sempre ai loro messaggi e alle chiamate: a volte sono stupidaggini, altre volte cose più importanti. Le video chiamate non fanno parte delle sue abitudini quotidiane e il viva voce è un tasto sconosciuto.

La mamma che si occupa racconta che il confronto tra persone con opinioni diverse a volte può essere acceso, ma non deve mai prescindere dal rispetto e dalla correttezza verso l’altro. La critica è la benvenuta in ogni discussione, a patto che sia per costruire e non per demolire e che si usi lo stesso rigore nell’osservare se stessi e gli altri. La mamma che si occupa stimola la competizione verso se stessi, insegna che i limiti esistono e ci si deve arrivare molto vicino per conoscerli e imparare a superarli, quando si può. In qualche caso bisogna accettarli e usare tutta la propria forza di volontà e intelligenza per trovare soluzioni alternative.

La mamma che si occupa lascia autonomia e usa la maggior parte del suo tempo per fornire gli strumenti per camminare da soli e avventurarsi fuori dal recinto, non per controllare o chiudere il cancello. Resta sulla stessa strada e osserva il viaggio, intervenendo solo se veramente necessario o se richiesto. Si affida ai figli (e un po’ anche alla fortuna) e alla loro capacità di imparare dagli errori e rialzarsi da soli. Vive e lascia vivere, con tutti i rischi che questo comporta. Con tutta la bellezza che questo comporta.

isolamento, la disneyland delle mamme alfa

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Sei chiusa in casa, con tre figli e un marito. Ciondolate nelle stanze, senza uno scopo, neanche litigare diventa ormai interessante o forse è troppo rischioso. Perché poi resterete tutti e 5 nello stesso posto, sullo stesso divano che alla fine della quarantena dovremo cambiargli le fodere e forse pure l’imbottitura. Non hai neanche lavatrici da fare, che sembra incredibile quanto poco si sporchino i vestiti a stare in casa. Potresti pulire, ma non sei portata per la casalinghitudine e gli aloni sui vetri tengono pure compagnia in queste giornate vuote.

Sei in questa situazione di limbo, di “neccarneneppesce” quando senti il rumore di un messaggio di whatsapp. Come una mano che si allunga verso il tuo corpo che galleggia inerme a pelo dell’acqua, come un ombrello aperto durante una di quelle piogge incessanti di primavera. Forse il mondo ha qualcosa di bello da darti, in questa giornata vuota. Forse.

E invece no. È un messaggio di una mamma alfa, una di quelle che hanno già riordinato tutti gli armadi con i bambini, cucito nuovi vestiti coordinati per tutta la famiglia con le tende vecchie, fuso il cioccolato per le uova di Pasqua da regalare agli amici mentre i bambini con la pasta sale hanno preparato le sorprese da nascondere dentro le uova. Il tutto parlando sempre rigorosamente in inglese, perché il bilinguismo è importantissimo fin dalla prima infanzia. È una mamma alfa che ti dice che ha scoperto una ricetta nuova da provare con la prole, perché non possono mica guardare per tutto il pomeriggio documentari del National Geographic (ah, i tuoi guardano cartoni animati e video idioti? ognuno sceglie come educare i propri figli, i miei non saprebbero neanche dove trovarli).

Diciamolo: la quarantena è un parco giochi per le mamme alfa, per mostrare tutte le loro risorse, la loro creatività, la loro “alfitudine”. È il momento in cui possono veramente andare in soccorso del mondo e delle altre madri. Quelle che quando lavorano 8 ore al giorno riescono anche a preparare una cena dignitosa e invece in queste giornate senza tempo si ritrovano a cucinare la pasta al burro e a tagliare le zucchine appena prima di cena. Quelle che hanno fatto la lavatrice, ma la stendono comunque dopo un paio di ore da quando ha finito. Sarà che quel profumo di acqua stagnante sui vestiti è ormai aroma di casa.

Ecco mamme alfa, volevo dirvi che mio figlio piccolo si sta rifiutando da giorni di dipingere l’arcobaleno su un foglio, un lenzuolo, una maglietta o anche solo un post it. Volevo dirvi che i miei figli sono annoiati e nervosetti, un po’ come sono io, che sogno il momento in cui posso andare a buttare l’immondizia (e cazzo, ci hanno messo i bidoni della raccolta differenziata fissi per ciascun palazzo e i miei sono a solo mezzo isolato dal portone di casa, troppo vicino per prendere aria e respirare un po’). Volevo dirvi che quando potremo uscire alla fine di questa giusta, sacrosanta, necessaria quarantena credo che ciascuno di noi cinque prenderà una strada diversa e starà un po’ da solo. Questo vorrei fare: andare a camminare da sola, leggere un libro su un tram senza nessuno che conosco, con la musica nelle orecchie. Stare senza uno dei figli appollaiato sulla spalla tipo condor che aspetta di attaccare ciò che resta di me.

Cucino anche io, impasto il pane, faccio gli gnocchi, faccio workout e tutto il resto (tranne pulire). Ma comunque non è che proprio mi basti per essere felice e quando siamo a scuola e a lavoro e ad allenamento e a lezioni di strumento, sto meglio.

Con affetto, una mamma zeta.

in foto: il disordine della camera dei miei figli

didattica a distanza (o distanza dalla didattica)

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Ho tre figli, in tre scuole diverse. Ho tre registri elettronici da controllare, tre siti delle rispettive scuole. Ho tre chat di classe (si, anche alla scuola superiore c’è la chat dei genitori e si parla anche lì di libri persi e compiti troppo onerosi). Tutto ciò è già impegnativo in tempi normali, quando le giornate sono scandite da impegni che si ripetono con rassicurante regolarità.

In tempi di Coronavirus avere tre figli è una prova sovraumana. Perché le scuole sono chiuse da 6 giorni e non si sa se riapriranno tra un giorno o quattro. Perché le attività sportive sono sospese, poi riprendono, poi cambiano sedi e orari (perché userebbero le palestre delle scuole, quelle chiuse). Perché in ogni registro elettronico devi controllare circolari e avvisi, nuovi compiti assegnati, comunicazioni che vengono corrette o smentite due ore dopo. Perché in ogni chat c’è qualche famiglia che posta ogni articolo trovi sui social, diffonde notizie di casi di contagio nel bar del quartiere ottenute da fonte certa (il cognato dell’amante del macellaio che passava da lì per caso).

E poi c’è lei: la didattica a distanza. Che in alcuni casi (rarissimi) significa usare uno strumento già sperimentato in classe (Google drive) per dare qualche esercizio su argomenti già affrontati insieme. In tutti gli altri vuol dire aggiungere sul registro elettronico indicazioni del tipo “fare da soli il sistema muscolare, appuntarsi le domande e fare lo schema lasciando gli spazi bianchi per i concetti che non sono chiari”. Ecco, io non sono insegnante o pedagogista, ma non credo che la didattica a distanza sia questa. Non credo sia sbolognare a studenti a casa (con nonni, babysitter, vicini di pianerottolo o da soli) l’onere di fare parte del programma in autonomia. La didattica a distanza è qualcosa di molto più ricco e complesso, che si costruisce, come ogni buona pratica, in tempi “di pace”. E che si dimostra qualcosa di utilissimo in tempi difficili.

Perché nell’educazione serve sempre progettualità a lungo termine, non soluzioni improvvisate in situazioni di emergenza. Educare è seminare, non raccogliere. E neanche buttare semi in una giornata di vento.

categoria “madre rompipalle”

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Nella categoria dei genitori io mi inserisco, senza ombra di dubbio, in quella di “madre rompipalle”. Posso dire con una certa sicurezza che sono nella top ten delle madri asfissianti.

Perché raramente mi lascio scappare un’occasione per pungolare i miei figli e spingerli a chiedere un po’ di più a loro stessi. È come se ci fosse una continua domanda sospesa, spesso neanche tanto implicita: hai fatto tutto quello che potevi? hai fatto del tuo meglio? non ti sei risparmiato neanche un po’? Quando rispondono a queste domande per me la discussione, di qualsiasi genere sia, è chiusa e cerco di avere in loro una fiducia piena. Perché funziona così il nostro rapporto: la cosa più grave che possiamo fare uno nei confronti dell’altro non è sbagliare o trattarci male, ma dirci una bugia. E la regola vale sia per noi adulti che per loro, non ci sono sconti.

Sono una madre rompipalle, incredibilmente rompipalle. Una che concede poco e chiede tanto, che non si accontenta mai e che non sembra mai contenta. Una che per ogni pacca sulla spalla dà almeno due calcetti sul sedere per invitare a ricominciare a camminare. I miei figli hanno imparato presto il detto “chi si loda si imbroda”, quando ancora non sapevano cosa volesse dire. Una che per alzare l’asticella ogni volta di più va sempre in giro con la scala.

Sono questa e sicuramente sono scomoda. Ma quando vedo l’impegno e la passione con cui si buttano nelle imprese i miei ragazzi, quando sento la loro fatica e il loro lavorare a testa bassa, mi sento soddisfatta. E felice. Quando Jacopo mi dice che “gli dispiace dire di no a qualcuno che gli ha chiesto di fare una cosa”, quando Lucia viene coinvolta nelle discussioni in classe per cercare di creare le migliori condizioni per un dialogo, quando Diego si destreggia sereno tra impegni a scuola, scout, sport e altre passioni, penso che stanno crescendo bene. Sereni e solidi, aperti al mondo e rigorosi, appassionati e con amor proprio. Ci sono tante differenze tra loro tre, ognuno ha un suo modo di affrontare le cose e vivere le diverse situazioni. Ma c’è uno strato comune da cui ciascuno parte per la sua strada, fatto di affidabilità, serietà, curiosità, testardaggine, voglia di esprimersi e di ascoltare gli altri, ottimismo. Un’inquietudine positiva che li rende permeabili e capaci di farsi attraversare dalle esperienze in maniera attiva.

Sono una madre rompipalle, che li inonda di mille stimoli e proposte. Sposata con il loro padre rompipalle, che chiede molto. Ma poi vedo quale meraviglioso capitale umano abbiamo di fronte e dico che stiamo facendo solo quello che siamo chiamati a fare: aiutarli a diventare il meglio di ciò che vogliono essere.

È un fantastico lavoro, ed è toccato a noi.

crescere piccoli comunisti

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Qualche giorno fa, nel cortile interno comune tra la casa dei nonni e casa nostra; buio intorno, sono le 19. Torniamo a casa Diego e io e ci raccontiamo la giornata.

– Oggi abbiamo mangiato le caramelle a scuola –

– Come mai? –

– Le ha portate il mio compagno E. perché il 25 aprile è il suo compleanno –

– … sei sicuro? –

– Ah no, mi sono sbagliato: è il 25 dicembre il suo compleanno. Vabbè anche il 25 aprile è una data importante –

– Certo amore, è un giorno importante anche il 25 aprile –

– Anzi, secondo me è anche più importante: ci hanno liberato dai nazisti e poi c’erano i bombardamenti prima. Il 25 dicembre è nato un bambino –

Non mi si vede, ma se ci fosse un po’ di luce potreste notare gli angoli della bocca sollevati e gli occhi che sorridono. Stiamo crescendo un piccolo comunista.

– Non sei d’accordo con me mamma? –

– Si Diego, ma magari non dirlo a catechismo –