son talenti

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I miei figli hanno un talento speciale. Tutti e tre, quindi immagino che ci sia una parte di responsabilità genetica in questo. Devo indagare con mia mamma e mia suocera, per capire chi tra me e loro padre ha trasmesso il gene fortunato.

I miei figli sanno sentire in anticipo la tragedia, la calamità naturale. Come gli animali che sentono il terremoto quando ancora le placche terrestri dormono il sonno dei giusti o che percepiscono il tornado o l’alluvione quando l’aria è ferma e secca come in un forno statico. Sembra un talento da poco, ma forse tra qualche anno partiranno per il Giappone o i Caraibi e salveranno milioni di persone alzando il ditino per parlare e dicendo, con gentilezza, “Scusate il disturbo, sta per arrivare un disastro naturale. Lasciate tutto qui e scappate subito”.

In attesa di trasferirsi dall’altra parte del pianeta e salvare l’umanità, si esercitano a casa. Anche perché, devo ammettere, che devono ancora affinare la loro sensibilità. Perché loro ogni volta che escono di casa scappano a gambe levate, lasciando la bottiglia finita della bibita sul bracciolo del divano, i quaderni aperti sul tavolo del soggiorno, i fazzoletti usati sulla scrivania, le carte della merendina sul letto, gli spartiti sparsi sul divano mischiati ai vestiti sporchi della palestra.

Evidentemente sono dovuti scappare da casa, abbandonare tutto senza poter buttare l’immondizia prodotta, chiudere i libri e mettere il cappuccio alle penne, ritirare gli spartiti e mettere i vestiti puzzolenti nel cesto della biancheria sporca. Se l’avessero fatto avrebbero rischiato che il palazzo gli si sbriciolasse sotto i piedi, le finestre sarebbero andate in frantumi per il vento del tornado in arrivo e il salotto sarebbe stato sommerso dall’acqua del Po esondato in un’onda anomala (e il Po dista circa 2 km da casa nostra e noi abitiamo al sesto piano).

Devono affinare la loro sensibilità perché poi, fortunatamente, i disastri ambientali non sono mai avvenuti e al rientro in casa io ho solo trovato le tracce del loro fuga. Perché loro non sono disordinati, sono diversamente sensibili. Hanno talento.

zitti e buoni

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“Non avete diritto di fare sciopero, perché io ho preparato una lezione da fare questa mattina”

Li vogliamo così: zitti e buoni, grati di imparare chiusi nelle loro stanze. Isolati dal mondo e impegnati solo a rendere merito ai nostri sforzi per infilare nelle loro teste ciò che noi riteniamo gli serva. Non gli facciamo domande, l’obbedienza non richiede uno scambio. Non gli chiediamo opinioni, l’immagazzinamento di nozioni non prevede pensieri. Esigiamo obbedienza e fedeltà. E magari pure il buon umore, che la nostra giornata lavorativa è tanto difficile. Magari potessimo stare noi a casa tutto il giorno sul divano o sul letto, a seguir le lezioni in pigiama.

E qualcuno di loro, gli adolescenti, si sta abituando a questa asticella messa talmente in basso che per superarla basta strisciare per terra, comprimere ogni ambizione, sogno, speranza. Rinunciare a qualsiasi prospettiva. Che poi è l’esatto opposto della formazione. Perché nessuno si forma per l’oggi, ma per il domani. E se il domani glielo tolgono o evitano di parlarne in qualsiasi forma, allora chi glielo lo fa fare di sforzarsi oggi? A che pro dovrebbero seguire lezioni a distanza, togliersi il pigiama al mattino, fare i compiti al pomeriggio, rispettare le scadenze? Se nessuno parla di loro e sono scomparsi da qualsiasi discorso pubblico, da qualsiasi progetto politico o di società, perché dovrebbero impegnarsi oggi? Gli adolescenti sono fantasmi, di cui abbiamo smesso di occuparci. Vogliamo da loro obbedienza e fedeltà, come in un collegio o in una caserma (e la citazione dei due reality secondo me peggiori degli ultimi anni non è casuale).

Non hanno diritti e poi ci lamentiamo che non pensino di avere dei doveri, che non sentano il sacro fuoco a costruire il bene comune, a proteggere i deboli. Glielo chiedono quegli stessi adulti che aspettano (o accettano) i condoni, senza fare uno più uno e realizzare che le tasse non versate servivano a proteggere i deboli: i malati, gli anziani, i disabili, i bambini. E a costruire quelle strutture (fisiche o di relazioni) che di loro si potevano occupare: gli ospedali, i servizi sociali, i supporti alle famiglie, le scuole. Li abbiamo dimenticati in casa e in questa seconda versione del lockdown li abbiamo anche lasciati da soli. Perché noi adulti continuiamo a uscire e andare a lavorare, perché l’economia deve ripartire, i consumi devono ripartire, la produzione deve ripartire. Loro possono aspettare. Possono ancora fare un sacrificio per consentirci di costruire un futuro in cui non hanno diritto di parola.

C’è un’emergenza e non sto parlando di quella sanitaria. C’è un’emergenza di ruoli che si giocano sempre e soltanto nella relazione con un altro diverso da noi. In questa emergenza di ruoli gli adulti e il mondo che rappresentano diventano muri di gomma contro cui rimbalzano le proteste e le proposte degli adolescenti. Non esiste dialogo, mediazione, relazione: solo un continuo rimbalzarsi addosso che sfianca chiunque, sfibra ogni resistenza. E annichilisce qualsiasi desiderio di cambiamento. O qualsiasi desiderio e basta.

Bisogna trovare gli spilli per creare tanti piccoli buchi in quella superficie continua, liscia e lucida, fori che inizino a far sfiatare il monolite. Tante parole e azioni come spilli, per smettere di essere zitti e buoni e diventare parlanti e vivi. Che a stare zitti e buoni c’è sempre tempo da morti.

siamo entrati nel tunnel

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Eravamo sfuggiti fino a ora, scivolando tra un contatto stretto e l’altro, driblando compagni, colleghi, amici, vicini di casa, parenti. Avevamo passato indenni il 2020 e contavamo che il 2021 si aprisse con fiducia, speranza e buoni auspici. E invece febbraio ci ha sedotti e poi abbandonati. Illusi da un tampone negativo della figlia di mezzo eravamo convinti che la fortuna fosse dalla nostra parte e invece è caduto sul campo il figlio grande, risultato positivo il 2 febbraio, un giorno dopo la buona notizia di sua sorella. E così sperimentiamo anche noi l’isolamento di un membro della famiglia per ogni momento della giornata (dormire_mangiare_studiare_lavarsi_oziare_guardarelatv_leggere), passiamo alcol sulle maniglie delle porte, riceviamo il pane e il latte grazie a parenti che ce lo depositano nell’ascensore, siamo ripiombati nella didattica a distanza e nello smart working totale (e totalizzante) e i referenti dell’asl sono ormai i nostri migliori amici (ci chiamano un paio di volte al giorno).

Sì, mio figlio grande è positivo e ho anche cercato per qualche giorno di ricostruire la catena del contagio, ma non ne sono stata capace e in ogni caso (come ha sempre detto mio marito) è un esercizio inutile e dannoso. Perché l’unica cosa vera è che è stato contagiato perché vive in una società. Va a scuola (solo da due settimane, 6 giorni effettivi di didattica in presenza), come io vado a lavoro. Prende i mezzi pubblici, come li prendo io. Scambia due parole con i compagni di classe o con gli amici all’aperto, come faccio io con mia sorella sotto casa o con la mia collega mentre andiamo a ritirare il pranzo d’asporto. Fa sport distanziato e all’aperto, come lo faccio io quando vado a correre la domenica pomeriggio nel parco. Vive una vita che definire normale non si può, ma di cui aveva iniziato ad assaporare giorno per giorno ogni singola riconquista: la scuola in presenza, la ripresa dello sport (non ancora col contatto), le attività scout, un pomeriggio con un’amica.

Non c’è colpa nell’essere contagiato, perché ha fatto (come me) tutte le attenzioni necessarie: ha indossato la mascherina sempre, ha tenuto le distanze, ha rinunciato a feste, pranzi, partite di basket al campetto. Perché se fosse così difficile beccarsi sto virus, credete che ci sarebbero tutti questi contagi? Chi cerca nei contagiati il comportamento scorretto in fondo sta dicendo che “se la sono cercata” (quindi sono dei cretini) e a lui o lei non potrà mai capitare.

Mio figlio quasi 17enne è positivo, ma non ho mai avuto paura che lui portasse il virus in casa (come non ho paura che lo porti sua sorella 14enne o suo fratello di 10 anni). Perché tutti possiamo portarlo, perché tutti siamo tornati a fare le attività che sono consentite e per questa scelta non abbiamo alcun rammarico. Mio figlio quasi 17enne è positivo e mi sto tenendo distante da lui adesso, perché cedere alla voglia di abbracciarlo e dargli un bacio prima di andare a dormire sarebbe irresponsabile nei confronti degli altri due figli che sono bloccati in casa in quarantena. Ma non l’ho mai tenuto distante prima, l’ho abbracciato e baciato (solo quando me lo ha concesso), ho bevuto a volte nello stesso bicchiere suo e ho condiviso la normale vita di una famiglia. Gli ho ricordato di lavarsi le mani quando rientrava a casa, ma non l’ho ossessionato. Perché se avessi avuto paura di mio figlio avrei dovuto avere paura del mondo e di me stessa per prima, perché ognuno di noi può essere vettore, anche inconsapevolmente e senza responsabilità. E il problema non è eventualmente chi può contagiare nonni, ma il fatto stesso che i nonni possano essere contagiati (prima nota: la nonna 71enne è stata contagiata, negli stessi giorni del nipote e chissà chi dei due è stato vettore per l’altro; seconda nota: i miei figli hanno continuato a vedere i nonni in questi mesi, perché i nonni avevano bisogno del contatto con i nipoti per restare sani).

Mio figlio quasi 17enne è positivo al covid e noi 5 siamo tutti insieme sulla stessa barca, o meglio nella stessa casa. Il rischio zero nella vita non esiste e anche esistesse credo che quella non sarebbe la vita che vorrei vivere e che proporrei ai miei ragazzi. Mangiamo in posti diversi collegati con FaceTime e ci fanno ridere sempre le stesse cose: le battute cretine, i rutti, le prese in giro. Usciremo dal tunnel insieme, perché vivere distanti non è vivere.

non vi fidate

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Ehi ragazzi, poco meno di un mese fa, vi dicevo che dovevate avere fiducia. Non so se mi abbiate ascoltato, forse non mi avete neanche letto. Io mi sono ascoltata, questo posso garantirvelo.

Ho coltivato la speranza ogni giorno, ho cercato di osservare ogni norma con scrupolo e coscienza, ho costruito in ogni momento il dopo domani, cercando di non farmi travolgere. Mi hanno chiesto di aspettare, mi hanno detto che le regole del gioco erano queste e io ho giocato. Ho seguito con attenzione e cura la vostra didattica a distanza, ho organizzato le stanze della casa perché ciascuno potesse fare l’attività online che aveva quel pomeriggio, ho fatto allenamenti di basket il sabato pomeriggio anche quando sarei voluta sprofondare sul divano.

Ho nutrito voi, nei pranzi condivisi quando sono in smart working, il vostro ottimismo e i nonni a turno, perché prenderci cura di loro è il nostro compito, mio e di papà. Non ho più visto un amico o un’amica, non ho abbracciato chi ha perso una mamma o una nonna, non ho dato spazio alla mia stanchezza enorme. Ho respirato, sorriso e smesso di mettere il rossetto, tutto sotto la mascherina.

Perché era il momento del sacrificio, dell’unità, della salita al colle insieme. Perché il gioco prevede fasi diverse e dopo quella più dura, quella rossa, avremmo visto dei risultati e avremmo potuto recuperare qualcosa del prima. Non gli amici, i pranzi fuori coi colleghi, il Natale coi nonni e la famiglia numerosa che abbiamo, gli abbracci, le vacanze in montagna in mezzo alla neve.

Ma almeno in parte la vostra scuola, le lezioni in aula, i compagni con cui entrare e uscire da quella che è la vostra casa. Perché papà e io vi insegniamo da quando avete un anno che il mondo è là fuori, dove potete condividere pensieri e azioni con gli altri, progetti, delusioni, vittorie. Con altri che non siamo noi, con chi vi accompagna e vi sostiene.

Abbiamo giocato e adesso ci cambiano le regole del gioco, ci spostano la meta, ci dicono che in fondo voi potete aspettare ancora e ancora. Non sanno cosa ci stanno togliendo: a voi il protagonismo dei vostri 13 e 16 anni. Non vi vedono chiusi in casa, spenti o su di giri, stanchi di guardare uno schermo dove tutto diventa uguale, la lezione come l’allenamento come l’attività scout come la festa dell’amico. A noi stanno togliendo gli strumenti per farvi crescere, per stimolarvi, per spronarvi a fare sempre del vostro meglio.

Vi avevo chiesto di avere fiducia, ma non ne ho più neanche io. Perché per avere fiducia bisogna avere di fronte qualcuno che merita rispetto e che rispetti noi come persone. Non ho fiducia in chi ha tradito le regole del gioco che ci ha chiesto di giocare. Non ho fiducia in chi vi mette al fondo delle priorità. Non ho fiducia in chi dice che siete voi a contagiare i nonni e gli anziani che stanno morendo. Non siete voi che non avete preparato gli ospedali per curarli e i medici sul territorio per farli restare a casa e con un’assistenza dignitosa. Non siete voi che non avete organizzato la logistica dei trasporti e di un sistema che rendesse possibile andare a lavorare e a scuola in sicurezza. Non siete voi che non state fermando il contagio attraverso un sistema di tracciamento efficiente e tempestivo.

Sono loro, quelli che cambiano le regole in corsa, che truccano i dati e vi rubano il presente e compromettono il vostro futuro.

Non vi fidate di loro, disobbedite.

cerco di spiegarvi una cosa

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Ehi ragazzi, sono io, la rompina che vi sta sempre addosso. Quella che sa dove sono le mutande, le calze e la verifica dei verbi dispersa. Quella che passa il tempo in casa a borbottare. Oggi cerco di spiegarvi una cosa, difficile anche per me. Oggi cerco di spiegarvi perché dobbiamo avere fiducia.

Dobbiamo avere fiducia nelle Istituzioni, che scriviamo con l’iniziale maiuscola: nello Stato, negli Enti Locali, nella Scuola. Perché la vita nel nostro mondo è così meravigliosamente complessa e articolata che ciascuno di noi deve delegare parte delle proprie scelte e decisioni a un organismo al di sopra degli individui singoli, capace di portare avanti la costruzione di un bene comune più ampio. Dobbiamo avere fiducia non solo quando le cose vanno bene, quando le risorse sono tante e le scelte sembrano le sfumature di una confezione da 72 di matite colorate. In quelle situazioni è facile essere democratici, ma non è lì che si mette alla prova la tenuta di questo sistema di convivenza civile. Quando le scelte impongono sacrifici, priorità da assegnare, rinunce e allocazione di risorse limitate (anzi, direi scarse): è allora che dobbiamo pensare che il bene comune sia indispensabile e sicuramente più importante del nostro bisogno personale impellente. E che quelle Istituzioni, le stesse che sbagliano, inciampano e cadono, sono l’unica strada possibile per uscire dalla crisi. E hanno bisogno della nostra fiducia, non cieca ma consapevole, responsabile e collaborativa.

Dobbiamo aver fiducia nel prossimo che incontriamo per strada. Non sto parlando dei nostri o vostri amici, della vostra famiglia, dei vostri insegnanti e allenatori. Parlo dell’anziano sul pullman a cui cedete il posto, del vicino di casa che scende dall’ascensore e non vi saluta, del genitore del compagno di classe e del cassiere del supermercato. Dobbiamo fidarci del fatto che chi ci circonda non sia un nemico e non abbia l’obiettivo di fregarci. Non ci dobbiamo difendere, ma aprirci agli altri, accoglierli e farci accogliere, affidarci nelle difficoltà. Perché la vita in difesa è molto più faticosa e l’unico risultato che si ottiene (nella migliore delle ipotesi) è di non arretrare rispetto al proprio punto di partenza, quando invece voi avete gambe e cervello capaci di andare molto lontano. Non si tratta di guardare il mondo con gli occhiali rosa degli ingenui, ma di scegliere di utilizzare le proprie energie per condividere e propagare il buono e il bello.

Dobbiamo aver fiducia nel domani o almeno nel dopo domani. Non vuol dire aspettare che passi la tempesta, ma costruire oggi le vostre competenze, la vostra professionalità, il vostro essere uomini e donne. Con impegno, costanza, passione. Anche se quello che abbiamo intorno in questo momento è simile alla nebbia che da qualche mattina vediamo fuori dal nostro balcone. Mia mamma, la nonna, mi ha insegnato che quando al mattino c’è la nebbia poi nella giornata spunta il sole, lei che ogni mattina attraversava il Sangone per andare a fare la maestra in una scuola che in certe giornate sembrava immersa in una tazza di latte bianco. Non so quanto durerà questa mattina avvolta dalla nebbia e non so se il sole lo vedremo oggi o domani. O forse dopo domani. Ma tornerà e noi saremo pronti a spingere i nostri passi sulla strada, perché avremo preparato lo zaino, stretto i lacci degli scarponi e studiato la cartina.

Stringete i denti e la mano di chi avete vicino e nutrite la vostra fiducia nelle Istituzioni, nel prossimo, nel domani. In voi stessi.

ci vuole un risarcimento

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Io credo che debbano esserci ancora dei permessi Covid per i genitori. O un risarcimento, ma non in denaro. In ore di sonno, di svago. O anche di assenza.

Ogni giornata ne vale 4. Perché le procedure per ciascun luogo frequentato dai figli prevede un modulo, un form, un’autocertificazione, 27 firme e 45 giuramenti con la mano sinistra alzata e la destra appoggiata sull’ultimo DPCM. Tutto questo dopo aver misurato la febbre e aver fatto domande circostanziate, come “hai dormito bene? Hai bisogno di un intero pacchetto di fazzoletti oggi o ne basta uno per tutta la giornata?”. Perché si sa che i motivi per non andare a scuola sono sempre stati vari e creativi per ciascun minore sulla faccia della terra e il giusto e sacrosanto scrupolo attuale è per loro manna dal cielo.

Ogni giorno esci di casa con alcune certezze: alle 14,45 ci sarà la preparazione fisica laces, alle 15,25 la lezione di chitarra, alle 17 l’allenamento di basket e di trampolino, alle 18,30 l’altro allenamento di basket, alle 20,30 la riunione di catechismo (*). E hai già fatto i salti mortali per incastrare tutti gli accompagnamenti, utilizzato nonne, genitori di compagni di classe, trampoliniste neo patentate. E poi, tempo di fare il viaggio in tram da lavoro a casa e tutto si stravolge: il secondo basket è spostato e si sovrappone alla preparazione atletica, ma sarebbe importante fare tutte e due le cose e allora si cerca un altro incastro. Vai a dormire quasi certa di avere un quadro preciso della giornata in cui ti sveglierai, ma l’imprevisto è dietro l’angolo. E non si tratta di quel numero con una cifra dopo la virgola che ogni mattina aspetti trepidante mentre spari in fronte col termo scanner ai tuoi figli (ho visto una sola volta un 7 e ho tremato, ma fortunatamente dopo la virgola c’era uno zero che più tondo non si può). No, questa mattina erano tutti ampiamente sotto i 37. Ma c’è l’agitazione da squadra nuova di basket e magari un po’ di sonno e il fatto che negli ultimi 7 giorni abbiamo vissuto nel centrifuga insalata emotivo e ne siamo usciti tutti un po’ malconci. Fatto sta che un figlio che alle 7,40 sta sul divano con gli occhi pieni di lacrime e ti dice che non si sente bene (perché non vuole andare all’allenamento di basket) ti obbliga a ricambiare i programmi e avvisare la mamma dell’amico (grazie, non mi serve più il passaggio in palestra), la nonna 1 (grazie, non devi più correre tra una nipotina e l’altro), la nonna 2 (grazie, oggi li prendi tutti tu e nei vari accompagnamenti avrai in macchina il pieno di lacrime di questa mattina).

Era già complicata la mia vita 12 mesi fa, con tre figli e un lavoro. Ma quest’anno mi sembra di superare ogni giorno le 12 fatiche di Ercole, tra moduli e burocrazia, norme igieniche, antenne sempre pronte a captare malesseri che possano essere fonte di contagio. E poi cambiamenti di programma continui, perché appena c’è un compagno di classe o di sport che forse è passato di fianco a uno che conosceva un altro che ha preso l’ascensore dopo il signore del quinto piano e ha schiacciato anche lui il tasto del piano terra e il signore del quinto piano ha un amico del bar che è risultato positivo al Covid (e “chealmercatomiopadrecomprò”), tutti gli impegni vengono messi in discussione perché bisogna evitare di incontrarsi, anche solo per errore.

Non mi sto lamentando, non ho intenzione di smettere di compilare i moduli, controllare che abbiano sempre le mascherine in cartella o misurare la febbre, giurare sui DPCM e sulla testa di Conte. Ma sono stanca, come se fossimo già al 2022, e sono sicura che la mia faccia lo dica a tutti.

(*) questi sono gli impegni, di oggi, dei miei figli. Lo giuro, sulla testa mia.

trova le differenze

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C’è la mamma che si preoccupa. Fa mille raccomandazioni, verifiche e controlli su ciò che devono fare gli altri affinché la sua progenie arrivi sana e salva alla destinazione che ha in mente: la scuola media a due isolati da casa, il centro sportivo a due pullman di distanza, il supermercato di quartiere. Vive vedendo pericoli a ogni angolo, drammi in agguato e ovviamente complotti alle spalle del proprio cucciolo.

La mamma che si preoccupa prenota i libri scolastici prima ancora che il bambino o ragazzo in questione vada a scuola, chiede nella chat di classe l’elenco del materiale per l’anno nuovo il primo giorno di vacanza, fa un breve sondaggio per sapere chi parteciperà allo sciopero del giorno dopo in seconda superiore, conosce alla perfezione le previsioni del tempo in occasione di qualsiasi gita o uscita scolastica, in pieno lockdown vorrebbe entrare a scuola per recuperare il sacchetto igienico in modo da poter lavare tutto il lavabile (forse anche le copertine di plastica dei quaderni).

La mamma che si preoccupa fa video chiamate continue coi pargoli dall’ufficio, piomba di fianco alle scrivanie dei colleghi brandendo un cellulare da cui escono le urla di un minore che non ha ancora capito che ci sono i momenti giusti e quelli sbagliati per salutare le colleghe delle mamma e che si può usare un tono di voce normale e non sempre da gallina strozzata o da cartone animato. Tu stai scrivendo il progetto della vita e lei entra nella stanza col viva voce attivo, viene di fianco a te (che continui a tenere lo sguardo fisso sul computer, fingendoti imbalsamata) e ti piazza il telefono davanti al naso perché “la mia bambina vuole tanto tanto salutarti”. La mamma che si preoccupa quando può scegliere se usare 10 o 100 parole per rispondere alla domanda “come va la scuola di XY?” quasi sicuramente deciderà di usarne 110, per farti un quadro completo della situazione.

La mamma che si preoccupa è molto concentrata sulla sua missione di vita: evitare qualsiasi trauma alla creatura. Banditi i giochi competitivi, bandito ogni scontro verbale più o meno acceso, bandita ogni opinione diversa. Chiunque si interponga tra la creatura e la sua libera volontà si sentirà un pippone galattico di quanto ogni nota, sgridata, correzione, disappunto mini l’equilibrio psicofisico della creatura stessa, la costruzione della sua autostima e la realizzazione di un futuro radioso. Che questo voglia dire non avere consapevolezza dei propri limiti non è qualcosa che impensierisce la mamma che si preoccupa: il limite è solo uno stato mentale.

La mamma che si preoccupa fa tutte queste cose e qualcuna in più. Salvo poi arrivare costantemente in ritardo a prendere i figli a qualsiasi attività, farli arrivare il giorno sbagliato alle prove generali del concerto, del saggio o di qualsiasi cosa (e dire che non li hanno avvisati per tempo), imbarazzarli davanti agli amici (come quando mia nonna prendeva dalla borsa il fazzoletto e mi diceva “vieni qui che ti pulisco il muso” dopo che avevo mangiato il gelato).

La mamma che si occupa punzecchia i figli perché trovino informazioni sui treni e sui percorsi per andare in montagna con gli amici (più piccoli di lui e di cui sarà responsabile), ascolta la logistica organizzata dal 16enne e da dei consigli, passa molto tempo a confrontarsi e poco a fare. Non controlla, ma resta lì, nel caso servisse ancora un consiglio. La mamma che si occupa fa il percorso in pullman fino al centro sportivo con la figlia, osserva insieme le strade, i negozi, i punti di riferimento; fa scaricare l’app e insegna a usarla e poi ha il telefono vicino quando per la prima volta la 13enne in questione prenderà il pullman da sola per tornare a casa della nonna: non chiama, ma resta lì, nel caso servisse un incoraggiamento.

La mamma che si occupa non sa cosa stiano facendo i figli nel programma di tecnologia o di italiano e neanche se nella prossima settimana ci saranno tre interrogazioni e due compiti in classe. Ma a cena i racconti delle giornate di tutti i membri della famiglia si sovrappongono e spesso vengono fuori le cose più importanti della scuola: la discussione col compagno o con l’insegnante, la lezione molto interessante o noiosa, i progetti nuovi e le normali paure.

La mamma che si occupa a volte chiama i figli durante il giorno e a volte no, perché si fa prendere dal lavoro e dalle cose da fare, perché a pranzo esce coi colleghi e chiacchiera con loro, perché pensa che poi comunque ci rivedremo a casa tra poco. A volte chiama e chiede come è andata la mattinata, risponde quasi sempre ai loro messaggi e alle chiamate: a volte sono stupidaggini, altre volte cose più importanti. Le video chiamate non fanno parte delle sue abitudini quotidiane e il viva voce è un tasto sconosciuto.

La mamma che si occupa racconta che il confronto tra persone con opinioni diverse a volte può essere acceso, ma non deve mai prescindere dal rispetto e dalla correttezza verso l’altro. La critica è la benvenuta in ogni discussione, a patto che sia per costruire e non per demolire e che si usi lo stesso rigore nell’osservare se stessi e gli altri. La mamma che si occupa stimola la competizione verso se stessi, insegna che i limiti esistono e ci si deve arrivare molto vicino per conoscerli e imparare a superarli, quando si può. In qualche caso bisogna accettarli e usare tutta la propria forza di volontà e intelligenza per trovare soluzioni alternative.

La mamma che si occupa lascia autonomia e usa la maggior parte del suo tempo per fornire gli strumenti per camminare da soli e avventurarsi fuori dal recinto, non per controllare o chiudere il cancello. Resta sulla stessa strada e osserva il viaggio, intervenendo solo se veramente necessario o se richiesto. Si affida ai figli (e un po’ anche alla fortuna) e alla loro capacità di imparare dagli errori e rialzarsi da soli. Vive e lascia vivere, con tutti i rischi che questo comporta. Con tutta la bellezza che questo comporta.

è bella la vita che scorre

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Questo è un post confusionario e scomposto, com’è la vita di questi tempi. È un flusso ininterrotto ma poco organico di pensieri e cose che avvengono e su cui mi fermo un tempo indefinito, a volte poco, a volte tanto. Un post di vita che scorre senza un ordine preciso.

È bello immaginare una vacanza, cercare campeggi e guardare le spiagge su google maps. Mandare richieste di affitto per bungalow e notare che le strutture per 5 persone sono sempre meno, ma forse stanno per finire le vacanze in 5. È bello pensare che per una settimana le mie orecchie sentiranno la lingua degli affetti e il suono dei denti che affondano nel croissant. Che i miei pensieri, i miei ragionamenti e i miei desideri saranno in un’altra lingua che è quella della me a 16 anni.

È bello avere un nuovo libro in cui immergersi, una storia dolorosa da esplorare. È forse ancor più bello quando non stai proprio ottimamente. Perché la fatica, il dolore, la preoccupazione a volte rendono più prossimi, più capaci di osservare i segni che la vita lascia sugli altri, più capaci di entrare in quel dolore, che sia reale o narrativo. E ti danno il coraggio di parlare di cose che sembrano tabù e invece hanno bisogno solo di un po’ di sfacciataggine per essere nominate (e a volte questo le fa diventare più piccole).

È bello andare in bici in due, uno davanti e l’altro seduto dietro sul portapacchi. Sentire le mani piccole che si appoggiano sui miei fianchi, avvisare per ogni salto o buca della strada, rallentare in corrispondenza dei paletti. E parlare: della giornata che sarà, del centro estivo che alla quarta settimana inizia ad annoiare, del programma delle cose da fare insieme nella prossima giornata di cassa integrazione, della nostra allergia ai pollini e all’erba appena tagliata. Ed è anche bello aver scoperto la bici come mezzo di trasporto a 40 anni suonati, meglio tardi che mai (e dovrei avere ancora qualche anno davanti per continuare a usarla in sicurezza).

È bello saperla sul pullman da sola e non aver bisogno di chiamarla mentre si sposta. Perché è sicura di quello che sta facendo, non ha paura di crescere. È bello parlare chiaramente con lui di quali responsabilità comporti il suo ruolo e, dopo qualche mugugno, vederlo chino sulla cartina a cercare un percorso da fare con la squadriglia o sentire che ha dato disponibilità per seguire i ragazzi della scuola media nel centro estivo. È bello avere dei figli permeabili alle proposte e non dei muri di gomma su cui ogni cosa rimbalza senza lasciare traccia.

È bello il messaggio di un’amica che inizia con “Di te adoro” o la premura di un’altra amica che ti scrive ogni giorno, per stare vicine anche se il tempo per vedersi non c’è. È bello dire a qualcuno che può appoggiare la sua fatica su di te, non per vederla sparire ma per vederla accolta. È bello andare a casa della tua professoressa del liceo il giorno del suo compleanno e portarle un libro che sei certa le piacerà e rivedere quella casa in cui hai passato tanto tempo quando ancora era solo la mamma della tua amica. È bello essere contenta perché le persone a cui vuoi bene sono in una città bellissima, in cui tornerai ne sei certa.

È bello andare avanti, nonostante lo stordimento dei mesi passati, la fatica delle settimane presenti e l’incertezza di quelle future.

perché a 16 anni

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C’è una canzone che mi ricorda i miei 16 anni, una di quelle che nella mia autoradio mentale mi sono cantata tante volte nella testa. E continuo a cantarla, perché la sento ancora vera per me e perché sono in fondo un po’ nostalgica. Oggi la canto pensando a te.

La canzone si intitola Eskimo ed è di Guccini. La strofa che oggi mi sembra perfetta per te è verso la fine e dice “perché a 20 anni è tutto ancora intero, perché a 20 anni è tutto o chi lo sa”. Tu di anni ne hai (solo) 16 oggi, ma sei stato uno che ha deciso di anticipare i tempi da subito. E il tuo mondo è tutto intero, tutto pieno di possibilità, di rischi da assumersi, di sfide da compiere. Sei nell’età in cui puoi essere ogni cosa tu voglia perché hai le capacità intellettive, le energie fisiche, le competenze progettuali per realizzare ogni sogno passi nella tua testa. E questa prateria sconfinata di possibilità ti rende mutevole, allegro, preoccupato, capace di voli pindarici e di passetti piccoli ma inesorabili per arrivare alla meta, rivoluzionario. Ti rende un meraviglioso adolescente che si appassiona, si impegna, si dimentica, si ferma o corre. Tutto nella stessa (mezza) giornata. Quando riesco ad avere lo sguardo sufficientemente largo per non restare agganciata al tuo computer lasciato sul tavolo, ai vestiti buttati a caso, al latte che l’altro ieri dovevi comprare tu e invece ho comprato io, vedo che non so ancora cosa sarai tra 10 anni, ma sono certa che sarà qualcosa di cui poter andare orgogliosi, tu e noi.

Ma la canzone è perfetta anche per come prosegue “A 20 anni si è stupidi davvero, quante balle si hanno in testa a quell’età”. Si, sei stupido davvero. Quello è proprio un talento naturale, che coltivi con costanza. Quando tua sorella mi chiede perché sei così scemo, le rispondo che ti abbiamo voluto bello e non si può aver tutto.

Buon compleanno figlio, bello e stupido. Come solo a 16 anni ci si può permettere di essere.

finalmente

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Questa mattina ho aperto gli occhi e la luce entrava dalle righe della tapparella non completamente abbassata. Ho guardato la radiosveglia e ho deciso di alzarmi, prima che partisse il giornale radio.

Ho tagliato la torta salata che ieri sera avevo preparato, ho lavato le ciliegie, ho preso 6 contenitori diversi e li ho impilati uno sull’altro dopo averli riempiti.

Sono entrata in camera dei ragazzi, sono salita sulle scalette dei loro letti a castello ed è bastato toccargli le gambe per farli svegliare. Meno di due minuti dopo erano tutti e due in cucina sufficientemente svegli per fare colazione. Abbiamo mangiato insieme, abbiamo ritirato le tazze sporche, ci siamo vestiti e siamo usciti.

Finalmente questa mattina abbiamo avuto voglia di alzarci tutti. Finalmente abbiamo chiuso la porta di casa dietro le nostre spalle per tornare nel mondo. Finalmente stiamo tutti in posti diversi: chi all’estate ragazzi, chi da un’amica, chi a lavoro. Finalmente ricominciamo a respirare, perché i giorni prima di questo erano asfittici, arrotolati su loro stessi, ingarbugliati, pieni e inutili.

Abbiamo rispettato le regole, vissuto il distanziamento con rigore e costanza, protetto gli altri intorno a noi da qualcosa di cui potevamo essere portatori senza neanche saperlo. Abbiamo cercato di far sentire la gentilezza nel timbro della voce, nelle rughe che si formano intorno agli occhi quando si sorride, nei modi accoglienti e disponibili. Perché anche se quelle mura di casa ci hanno a lungo contenuto, anche se le nostre mani non potevano correre verso altre mani per stringerle non abbiamo mai avuto il dubbio che la felicità vera, quella che vuol dire compiere appieno la nostra vita, sarebbe tornata solo quando ci saremmo di nuovo messi in cerchio con altri, quando avremo ricominciato a mangiare con gli amici, a correre coi compagni, a crescere insieme.

Finalmente oggi siamo tornati nella nostra vita, tutti. E non abbiamo paura, seguiamo le regole e continuiamo (perché non abbiamo mai smesso) a fidarci del mondo. Ci sono ancora delle nuvole, ma come ripeto spesso ai miei figli “non esiste buono o cattivo tempo, esiste solo buono o cattivo equipaggiamento”. E noi siamo equipaggiati.

Con i centri estivi è iniziata l’estate ed è ricominciata la vita.