son talenti

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I miei figli hanno un talento speciale. Tutti e tre, quindi immagino che ci sia una parte di responsabilità genetica in questo. Devo indagare con mia mamma e mia suocera, per capire chi tra me e loro padre ha trasmesso il gene fortunato.

I miei figli sanno sentire in anticipo la tragedia, la calamità naturale. Come gli animali che sentono il terremoto quando ancora le placche terrestri dormono il sonno dei giusti o che percepiscono il tornado o l’alluvione quando l’aria è ferma e secca come in un forno statico. Sembra un talento da poco, ma forse tra qualche anno partiranno per il Giappone o i Caraibi e salveranno milioni di persone alzando il ditino per parlare e dicendo, con gentilezza, “Scusate il disturbo, sta per arrivare un disastro naturale. Lasciate tutto qui e scappate subito”.

In attesa di trasferirsi dall’altra parte del pianeta e salvare l’umanità, si esercitano a casa. Anche perché, devo ammettere, che devono ancora affinare la loro sensibilità. Perché loro ogni volta che escono di casa scappano a gambe levate, lasciando la bottiglia finita della bibita sul bracciolo del divano, i quaderni aperti sul tavolo del soggiorno, i fazzoletti usati sulla scrivania, le carte della merendina sul letto, gli spartiti sparsi sul divano mischiati ai vestiti sporchi della palestra.

Evidentemente sono dovuti scappare da casa, abbandonare tutto senza poter buttare l’immondizia prodotta, chiudere i libri e mettere il cappuccio alle penne, ritirare gli spartiti e mettere i vestiti puzzolenti nel cesto della biancheria sporca. Se l’avessero fatto avrebbero rischiato che il palazzo gli si sbriciolasse sotto i piedi, le finestre sarebbero andate in frantumi per il vento del tornado in arrivo e il salotto sarebbe stato sommerso dall’acqua del Po esondato in un’onda anomala (e il Po dista circa 2 km da casa nostra e noi abitiamo al sesto piano).

Devono affinare la loro sensibilità perché poi, fortunatamente, i disastri ambientali non sono mai avvenuti e al rientro in casa io ho solo trovato le tracce del loro fuga. Perché loro non sono disordinati, sono diversamente sensibili. Hanno talento.

curriculum vitae

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Nome: sempre lo stesso, ripetuto mille volte appena metto piede sul luogo di lavoro, almeno da due persone contemporaneamente.

Indirizzo: è un po’ come la villa di Napoleone all’Elba. È un bel posto, stai anche bene, ma a volte sei consapevole dell’esilio rispetto al resto del mondo. E vorresti uscirne.

Telefono: quando sul display appaiono certi numeri senti le vene tremare ai polsi. “Scuola Elementare”, “Scuola Materna”, numero di casa ti fanno subito presagire disgrazie o quanto meno contrattempi. E a volte sono emerite stupidaggini che ti devono essere comunicate all’istante, anche se sei in una riunione fondamentale della giornata.

Data di nascita: quella anagrafica, ma anche qualche anno in più che si è appoggiato sulle spalle e sulle occhiaie. E poi, mi insegna uno dei miei capi, non è l’età anagrafica che conta, ma lo spirito e io, a detta sua, dimostro più dei miei anni.

Esperienza lavorativa:

da giugno 2004 a febbraio 2007  mamma di un figlio
da febbraio 2007 ad aprile 2010  mamma di due figli
da aprile 2010 a oggi  mamma di tre figli

Pensavo di iniziare soft, con una prima esperienza che è partita invece in anticipo e mi ha messo di fronte a visite mediche, controlli, senso di inadeguatezza (ecco, non sono neanche stata capace di tenerlo il tempo giusto…). Poi, nella mia incoscienza e serenità ho deciso di continuare a provare e questa volta l’ho trattenuta troppo. E si sa, il troppo stroppia, e così ci siamo ritrovate a conoscerci (il mio nuovo datore di lavoro e io) un po’ di fretta, senza quasi poter aspettare che finissi di lavarmi i denti. Senza neanche accorgermene (perché dormivo) è sbucata fuori, come il coniglio dal cappello. Quindi ho deciso che la terza sarebbe stata la volta buona e mi sono ributtata a capofitto nell’esperienza. E ho avuto ragione, tutto è andato liscio, come leggi nei libri e come ti sembra che a tutti debba accadere (e poi scopri che non accade poi così spesso).

Principali mansioni e responsabilità:

assistenza: di ogni tipo, da quella materiale a quella psicologica (“come compito di scienze devo costruire una cellula, mi aiuti?” “il mio amico D. non mi ha invitato alla sua festa di compleanno, perché???”), da quella fisica a quella spirituale (“non riesco ad allacciarmi le scarpe” “ma quando uno muore lo mettono in una scatolina?”);

mediazione: culturale (“la maestra ce l’ha con me, anche l’allenatore e i capi scout, tutto il mondo ce l’ha con me e io non faccio nulla”), generazionale (“perché non posso stare a casa quando ci sono i compagni di classe di mio fratello grande”) e di qualsiasi altro tipo si possa immaginare;

archivio: di oggetti (“dov’è quel disegno che ti ho dato un mese fa? dov’è la mia uniforme di basket che tra 5 minuti devo essere in campo? dov’è il mio quaderno degli scout?”), di informazioni (“ti avevo detto quali erano le doppie dell’album dei calciatori che mi mancavano, come non te le ricordi più!”, “ti avevo detto un mese fa che stamattina avrei avuto bisogno di una torta fatta a mano a lievitazione naturale per la merenda di catechismo, come non l’hai preparata?”), di conoscenze scolastiche (“come non mi sai aiutare a fare le equivalenze? e io come faccio?” “quando si sono estinti i dinosauri?” “come si chiama il fiume più lungo d’Europa?”).

Capacità e competenze personali, hobby

Anche senza volerlo sono una collezionista: di fazzoletti sporchi, di carte di caramelle, di ritagli di giornale, di disegni ripiegati, di margherite e trifogli, di foglie ingiallite, di biglietti di auguri, di macchinine rotte, di orecchini spaiati, di braccialetti fatti con gli elastici, di denti caduti. Di baci e di lacrime. Di promesse e bugie.

Non cerco lavoro, faccio già la mamma di tre ragazzi a tempo infinito (che è molto più che indeterminato).

i migliori tra i capi possibili

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Una volta io e l’altro capo unità siamo andati a dormire in tenda con i bambini più grandi e abbiamo lasciato tutti gli altri lupetti con i ragazzi del clan e i cambusieri. Nessuno dei due voleva rinunciare all’ultima uscita con i grandi, nel nostro ultimo campo da capi branco. Sono sopravvissuti tutti.

Un’altra volta ho obbligato un bambino a mangiare la verdura e siamo rimasti quasi un’ora a tavola solo noi due, mentre gli altri giocavano. Finché la verdura non l’ha mangiata. E non mi risulta sia rimasto traumatizzato.

Un pomeriggio di primavera caldo di fronte a un bambino che pur di non far bere un altro dalla sua borraccia ha deciso di svuotarla per terra, non l’ho fatto bere per il resto del pomeriggio, evidentemente non aveva così sete se sprecava l’acqua. Non si è disidratato.

In una route estiva col noviziato ho accettato un percorso troppo duro, proposto dai ragazzi. Risultato: un piede rotto, una febbre alta con vomito, un ginocchio gonfissimo (il mio) e tanta stanchezza. Troppa, e infatti abbiamo cambiato i programmi.

Ho fatto mille errori come capo scout, qualcuno meno grave, altri di più. Ho sbagliato e non sempre me ne sono resa conto. E ci sono stati genitori che mi hanno sostenuto e genitori che mi hanno criticato. Genitori che hanno lasciato nel gruppo i loro figli e altri che hanno deciso di non portarli più.

Non sono stata il migliore dei capi possibili, ma sono stata me stessa, con i difetti e i pregi, con onestà.

I miei ragazzi sono fortunati, perché non hanno i migliori capi possibili, ma hanno i loro capi: ragazzi e ragazze, uomini e donne che si giocano senza risparmiarsi, che si mettono al loro fianco e sbagliano, ricominciano e imparano dagli errori. Perché per crescere non servono modelli, ma compagni di strada. È così che la strada si apre.

le cose che noi mamme (e noi figli) sappiamo fare

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Ci sono cose che solo una mamma sa fare.
Dondolarsi da ferma, oscillando sui talloni al ritmo di una ninna nanna che sembra un lamento, per accompagnare il piccolo verso il sonno. Inglobare un neonato nel proprio corpo, in maniera così completa e naturale che diventa difficile distinguere la pelle di uno da quella dell’altro. Organizzare feste e pomeriggi con amici all’ultimo minuto, inventando merende e giochi senza aver programmato niente. Tirar fuori una cena da un frigo vuoto, come un prestigiatore sa far apparire conigli dal suo cappello. Attaccare toppe e far orli ai pantaloni, cucire distintivi sul body di artistica o sulla camicia scout, asciugare i pantaloni preferiti col ferro da stiro, perché “altrimenti domani cosa mi metto?”. Studiare le poesie e le recite a memoria, tanto che poi potrebbe stare lei sul palco. Aspettare che il proprio figlio cada in bici per poi aiutarlo a rialzarsi e mettere cerotti sui graffi e sullo spavento che tutti e due, mamma e figlio, hanno provato. Fare bolle di sapone col detersivo per i piatti e giocare ai travestimenti, in un pomeriggio di pioggia. Pettinare una chioma ribelle e fare codine e trecce, anche se non a tutte le mamme vengono proprio dritte.
Ci sono cose che solo un figlio sa fare.
Farti dimenticare la stanchezza di una giornata con un abbraccio e un bacio. Farti sentire una cuoca stellata per una pasta al burro e un uovo fritto. Farti fare mille cose in un’ora quando prima ne avresti fatta solo una, e a fatica. Farti riscoprire poesie e formule di matematica che non credevi più di avere in memoria. Farti stare col cuore in gola quando in bici si arrampica su un muretto e poi farti mettere da parte la voglia di sgridarlo quando vedi che lui si è spaventato più di te. Farti andare a dormire convinta che domani ti sveglierai trasformata in una principessa. Te lo ha detto tuo figlio prima di dormire. E su certe cose i figli dicono sempre la verità.