son talenti

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I miei figli hanno un talento speciale. Tutti e tre, quindi immagino che ci sia una parte di responsabilità genetica in questo. Devo indagare con mia mamma e mia suocera, per capire chi tra me e loro padre ha trasmesso il gene fortunato.

I miei figli sanno sentire in anticipo la tragedia, la calamità naturale. Come gli animali che sentono il terremoto quando ancora le placche terrestri dormono il sonno dei giusti o che percepiscono il tornado o l’alluvione quando l’aria è ferma e secca come in un forno statico. Sembra un talento da poco, ma forse tra qualche anno partiranno per il Giappone o i Caraibi e salveranno milioni di persone alzando il ditino per parlare e dicendo, con gentilezza, “Scusate il disturbo, sta per arrivare un disastro naturale. Lasciate tutto qui e scappate subito”.

In attesa di trasferirsi dall’altra parte del pianeta e salvare l’umanità, si esercitano a casa. Anche perché, devo ammettere, che devono ancora affinare la loro sensibilità. Perché loro ogni volta che escono di casa scappano a gambe levate, lasciando la bottiglia finita della bibita sul bracciolo del divano, i quaderni aperti sul tavolo del soggiorno, i fazzoletti usati sulla scrivania, le carte della merendina sul letto, gli spartiti sparsi sul divano mischiati ai vestiti sporchi della palestra.

Evidentemente sono dovuti scappare da casa, abbandonare tutto senza poter buttare l’immondizia prodotta, chiudere i libri e mettere il cappuccio alle penne, ritirare gli spartiti e mettere i vestiti puzzolenti nel cesto della biancheria sporca. Se l’avessero fatto avrebbero rischiato che il palazzo gli si sbriciolasse sotto i piedi, le finestre sarebbero andate in frantumi per il vento del tornado in arrivo e il salotto sarebbe stato sommerso dall’acqua del Po esondato in un’onda anomala (e il Po dista circa 2 km da casa nostra e noi abitiamo al sesto piano).

Devono affinare la loro sensibilità perché poi, fortunatamente, i disastri ambientali non sono mai avvenuti e al rientro in casa io ho solo trovato le tracce del loro fuga. Perché loro non sono disordinati, sono diversamente sensibili. Hanno talento.

siamo entrati nel tunnel

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Eravamo sfuggiti fino a ora, scivolando tra un contatto stretto e l’altro, driblando compagni, colleghi, amici, vicini di casa, parenti. Avevamo passato indenni il 2020 e contavamo che il 2021 si aprisse con fiducia, speranza e buoni auspici. E invece febbraio ci ha sedotti e poi abbandonati. Illusi da un tampone negativo della figlia di mezzo eravamo convinti che la fortuna fosse dalla nostra parte e invece è caduto sul campo il figlio grande, risultato positivo il 2 febbraio, un giorno dopo la buona notizia di sua sorella. E così sperimentiamo anche noi l’isolamento di un membro della famiglia per ogni momento della giornata (dormire_mangiare_studiare_lavarsi_oziare_guardarelatv_leggere), passiamo alcol sulle maniglie delle porte, riceviamo il pane e il latte grazie a parenti che ce lo depositano nell’ascensore, siamo ripiombati nella didattica a distanza e nello smart working totale (e totalizzante) e i referenti dell’asl sono ormai i nostri migliori amici (ci chiamano un paio di volte al giorno).

Sì, mio figlio grande è positivo e ho anche cercato per qualche giorno di ricostruire la catena del contagio, ma non ne sono stata capace e in ogni caso (come ha sempre detto mio marito) è un esercizio inutile e dannoso. Perché l’unica cosa vera è che è stato contagiato perché vive in una società. Va a scuola (solo da due settimane, 6 giorni effettivi di didattica in presenza), come io vado a lavoro. Prende i mezzi pubblici, come li prendo io. Scambia due parole con i compagni di classe o con gli amici all’aperto, come faccio io con mia sorella sotto casa o con la mia collega mentre andiamo a ritirare il pranzo d’asporto. Fa sport distanziato e all’aperto, come lo faccio io quando vado a correre la domenica pomeriggio nel parco. Vive una vita che definire normale non si può, ma di cui aveva iniziato ad assaporare giorno per giorno ogni singola riconquista: la scuola in presenza, la ripresa dello sport (non ancora col contatto), le attività scout, un pomeriggio con un’amica.

Non c’è colpa nell’essere contagiato, perché ha fatto (come me) tutte le attenzioni necessarie: ha indossato la mascherina sempre, ha tenuto le distanze, ha rinunciato a feste, pranzi, partite di basket al campetto. Perché se fosse così difficile beccarsi sto virus, credete che ci sarebbero tutti questi contagi? Chi cerca nei contagiati il comportamento scorretto in fondo sta dicendo che “se la sono cercata” (quindi sono dei cretini) e a lui o lei non potrà mai capitare.

Mio figlio quasi 17enne è positivo, ma non ho mai avuto paura che lui portasse il virus in casa (come non ho paura che lo porti sua sorella 14enne o suo fratello di 10 anni). Perché tutti possiamo portarlo, perché tutti siamo tornati a fare le attività che sono consentite e per questa scelta non abbiamo alcun rammarico. Mio figlio quasi 17enne è positivo e mi sto tenendo distante da lui adesso, perché cedere alla voglia di abbracciarlo e dargli un bacio prima di andare a dormire sarebbe irresponsabile nei confronti degli altri due figli che sono bloccati in casa in quarantena. Ma non l’ho mai tenuto distante prima, l’ho abbracciato e baciato (solo quando me lo ha concesso), ho bevuto a volte nello stesso bicchiere suo e ho condiviso la normale vita di una famiglia. Gli ho ricordato di lavarsi le mani quando rientrava a casa, ma non l’ho ossessionato. Perché se avessi avuto paura di mio figlio avrei dovuto avere paura del mondo e di me stessa per prima, perché ognuno di noi può essere vettore, anche inconsapevolmente e senza responsabilità. E il problema non è eventualmente chi può contagiare nonni, ma il fatto stesso che i nonni possano essere contagiati (prima nota: la nonna 71enne è stata contagiata, negli stessi giorni del nipote e chissà chi dei due è stato vettore per l’altro; seconda nota: i miei figli hanno continuato a vedere i nonni in questi mesi, perché i nonni avevano bisogno del contatto con i nipoti per restare sani).

Mio figlio quasi 17enne è positivo al covid e noi 5 siamo tutti insieme sulla stessa barca, o meglio nella stessa casa. Il rischio zero nella vita non esiste e anche esistesse credo che quella non sarebbe la vita che vorrei vivere e che proporrei ai miei ragazzi. Mangiamo in posti diversi collegati con FaceTime e ci fanno ridere sempre le stesse cose: le battute cretine, i rutti, le prese in giro. Usciremo dal tunnel insieme, perché vivere distanti non è vivere.

il campo continua

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«40 anni fa don Andrea Ghetti – BADEN terminava la sua corsa terrena, a causa di un incidente d’auto durante la Route in Francia con il suo Clan Milano 1. L’ultimo messaggio che lasciò ai suoi ragazzi è «il campo continua». The show must go on. Quella Route finì bruscamente e la ripresa fu dura. Ma si continuò.»

Quello qui sopra è uno stralcio di un post del gruppo facebook Fedeli e Ribelli che continua a raccontare e a condividere il messaggio delle Aquile Randagie, gli scout che durante il fascismo continuarono a fare attività in clandestinità in val Codera e portarono avanti i valori dello scoutismo.
Questi sarebbero giorni di campi, me lo ricorda costantemente il mio calendario del cellulare. Sarebbero giorni in cui pensarli felici, con le mani e le ginocchia sporche, le labbra secche per il sole, la voce roca per i canti. Sarebbero giorni in cui iniziare a pensare a cosa portare alla giornata dei genitori: il pollo fritto (anche quello con l’impanatura senza glutine per Cristiana) e l’insalata di pasta, la parmigiana con cui Micaela e Silvia si sfidano e ancora non abbiamo deciso chi la faccia più buona, la pizza di pasta di Fortuna, i rotolini con la nutella di Patrizia, l’anguria che segna proprio l’inizio delle vacanze. Sarebbero giorni di cammino, giochi, condivisione, fatica, impegno, verifica.

Invece gli zaini sono appesi letteralmente al chiodo nel nostro sgabuzzino, le camicie stirate nell’armadio, gli scarponcini fermi nella scarpiera del balcone. La bussola continua a segnare il nord, ma non ci sono passi per raggiungerlo. Dopo la scuola, i viaggi oltreoceano e gli abbracci siamo rimasti anche senza campi. Dico siamo perché anche se sono i figli a indossare i pantaloncini di velluto e a mettere al collo un fazzolettone, tutti e 5 viviamo lo scoutismo che, come “sente” benissimo chi lo conosce, è una scelta educativa di famiglia.

La ripresa è stata – per chi non ha ricominciato sarà – dura, ma per quanto sia diverso e difficile si deve continuare. Lo scoutismo deve continuare perché questa società ne ha fortemente bisogno. Perché ancora non ho trovato un altro ambiente educativo in cui il centro riescano a essere contemporaneamente l’individuo e la comunità. Un ambiente in cui si faccia esperienza di impegno, responsabilità, condivisione, speranza, progettualità. Un luogo in cui si cresce insieme – bambini, ragazzi, adulti, famiglie – nel rispetto reciproco, nell’autonomia, nella corresponsabilità, nell’autoeducazione. Nella correzione fraterna, che vuol dire sentire la responsabilità di osservare se stessi e gli altri per capire gli errori di ciascuno e mettersi uno a fianco dell’altro per correggerli e crescere. Aiutarsi e aiutare gli altri a fare sempre del proprio meglio.

Lo scoutismo deve continuare, trasformandosi, a rispondere alle sfide dei tempi, momentanee o stabili che siano. Gli strumenti del metodo si evolveranno, le tradizioni e le abitudini di ogni singolo gruppo cambieranno con il contesto e le persone che vivono in quella comunità, si faranno cose diverse in modi diversi. Ma resterà il cuore di tutto: l’educazione che mette al centro bambini e bambine e il loro impegno per fare del proprio meglio, ragazzi e ragazze e la capacità di essere pronti a cogliere ciò che la vita offre, uomini e donne e la scoperta della felicità nel mettersi al servizio degli altri, per costruire una società giusta, leale, accogliente.

“nessun profumo vale l’odore di quel fuoco…”: abbiamo bisogno di continuare a sentirlo.

è bella la vita che scorre

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Questo è un post confusionario e scomposto, com’è la vita di questi tempi. È un flusso ininterrotto ma poco organico di pensieri e cose che avvengono e su cui mi fermo un tempo indefinito, a volte poco, a volte tanto. Un post di vita che scorre senza un ordine preciso.

È bello immaginare una vacanza, cercare campeggi e guardare le spiagge su google maps. Mandare richieste di affitto per bungalow e notare che le strutture per 5 persone sono sempre meno, ma forse stanno per finire le vacanze in 5. È bello pensare che per una settimana le mie orecchie sentiranno la lingua degli affetti e il suono dei denti che affondano nel croissant. Che i miei pensieri, i miei ragionamenti e i miei desideri saranno in un’altra lingua che è quella della me a 16 anni.

È bello avere un nuovo libro in cui immergersi, una storia dolorosa da esplorare. È forse ancor più bello quando non stai proprio ottimamente. Perché la fatica, il dolore, la preoccupazione a volte rendono più prossimi, più capaci di osservare i segni che la vita lascia sugli altri, più capaci di entrare in quel dolore, che sia reale o narrativo. E ti danno il coraggio di parlare di cose che sembrano tabù e invece hanno bisogno solo di un po’ di sfacciataggine per essere nominate (e a volte questo le fa diventare più piccole).

È bello andare in bici in due, uno davanti e l’altro seduto dietro sul portapacchi. Sentire le mani piccole che si appoggiano sui miei fianchi, avvisare per ogni salto o buca della strada, rallentare in corrispondenza dei paletti. E parlare: della giornata che sarà, del centro estivo che alla quarta settimana inizia ad annoiare, del programma delle cose da fare insieme nella prossima giornata di cassa integrazione, della nostra allergia ai pollini e all’erba appena tagliata. Ed è anche bello aver scoperto la bici come mezzo di trasporto a 40 anni suonati, meglio tardi che mai (e dovrei avere ancora qualche anno davanti per continuare a usarla in sicurezza).

È bello saperla sul pullman da sola e non aver bisogno di chiamarla mentre si sposta. Perché è sicura di quello che sta facendo, non ha paura di crescere. È bello parlare chiaramente con lui di quali responsabilità comporti il suo ruolo e, dopo qualche mugugno, vederlo chino sulla cartina a cercare un percorso da fare con la squadriglia o sentire che ha dato disponibilità per seguire i ragazzi della scuola media nel centro estivo. È bello avere dei figli permeabili alle proposte e non dei muri di gomma su cui ogni cosa rimbalza senza lasciare traccia.

È bello il messaggio di un’amica che inizia con “Di te adoro” o la premura di un’altra amica che ti scrive ogni giorno, per stare vicine anche se il tempo per vedersi non c’è. È bello dire a qualcuno che può appoggiare la sua fatica su di te, non per vederla sparire ma per vederla accolta. È bello andare a casa della tua professoressa del liceo il giorno del suo compleanno e portarle un libro che sei certa le piacerà e rivedere quella casa in cui hai passato tanto tempo quando ancora era solo la mamma della tua amica. È bello essere contenta perché le persone a cui vuoi bene sono in una città bellissima, in cui tornerai ne sei certa.

È bello andare avanti, nonostante lo stordimento dei mesi passati, la fatica delle settimane presenti e l’incertezza di quelle future.

le cose che mi tengono a galla

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Oggi è un mese esatto che non esco da casa (sì, perché andare a comprare il latte, la verdura, ritirare la spesa con Coop drive, portare Jacopo dal dentista non lo considero uscire). È un mese in cui tutti i 30 giorni sono stati segnati sul mio calendario interno, uno dopo l’altro, cercando di costruire routine, alimentare progettualità, ricacciare indietro sconforto, noia, fatica.

Dieci cose mi hanno tenuto a galla.

I miei ragazzi, impegnativi e presenti. I loro bisogni da ascoltare, le loro cadute, i loro guizzi di generosità e altruismo. La loro vita che prosegue e di cui insieme dobbiamo continuare a progettare la strada.

Il lavoro che faccio, che mi incita a mettermi sempre in cammino e al servizio. Inventarsi modi nuovi per farlo, incontrare insegnanti e studenti, vedere la casa dei nostri autori è il modo che preferisco per sentirmi viva e vigile.

La cucina, croce e delizia di questa quarantena. Quando tutto questo sarà finito chiuderò i fornelli per qualche mese e vivremo di cibo da asporto. Ma cucinare è trasformare, far evolvere, dare forme diverse a ciò che si ha di fronte (e in tutto questo c’è qualcosa di catartico per me).

La scuola e gli insegnanti dei miei figli, che osservo dalle retrovie, sentendo lezioni della professoressa di italiano attraverso il muro che separa la camera dal salotto o guardando i compiti dati (e sempre corretti) dalle maestre. Sapevo già prima che eravamo stati fortunati, ma adesso ho proprio la voglia di abbracciarli e magari commuovermi un po’ con loro. Per quanto sono cresciuti in mezzo a questa tempesta i nostri ragazzi e ragazze, quanto abbiamo remato insieme perché la loro canoa superasse le rapide intera.

I libri, che non riesco a leggere con la concentrazione e la leggerezza che ho d’estate, quando le pagine scorrono una dietro l’altra. Ma loro sono sempre lì, con le loro parole per me, che mi curano e mi portano fuori dal qui e dall’ora.

La musica e la sdraio in balcone, in cui mi rifugio alla ricerca di solitudine. Perché sembra assurdo ma mi manca tanto il restare da sola, senza nessuno intorno. Rimpiango addirittura il viaggio quotidiano in tram per andare e tornare da lavoro.

La mia famiglia allargata, una rete che ha saputo stringere le maglie per non far scivolare nessuno fuori. Che ha messo insieme risorse, scambiato cibo e acquisti, consegnato a domicilio libri, verdura, semi e terra. E portato in ogni occasione vicinanza. Più di quella che dimostro normalmente.

Gli amici, quelli di sempre, quelli che già c’erano. Quelli che ti chiamavano prima, ti invitavano a cena prima, ti pensavano prima. Ci sentiamo più spesso, più spesso condividiamo foto di cose normali, vocali lunghissimi, chiamate, pensieri. Non mi sento sola in questo momento perché so che in tante case c’è lo stesso ottimismo della volontà che ci farà ricostruire un tessuto civile degno di questo nome.

Il sole, che se fosse stato un marzo piovoso avrei abbattuto i muri a testate e adesso vivremmo in un openspace. Il cielo azzurro di queste mattine non solo mi mette in pace, ma fa bene alle mie piante e al mio colorito. Così magari uscirò dall’isolamento con un’aria vagamente sana.

Il mio compagno di viaggio per eccellenza, che accoglie i miei momenti di sconforto e si lascia spronare dalla mia energia, quando a essere sconfortato è lui. So che non sono mai sola, che ogni prova la affrontiamo insieme e questo mi da una tranquillità incredibile. Ne usciremo comunque, sempre in due.

10 anni ai tempi del Coronavirus

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Il compleanno in quarantena è fatto di piccole bellissime cose.

Cose buone da mangiare, racimolate un po’ a fatica (la pasta cercata apposta nel negozio leggero, la torta fatta dalla nonna perché il robot da cucina si è rotto, la carne da fare impanata che la nonna aveva provvidenzialmente in congelatore (poi un giorno farò un post sulla capacità magica del frigo di mia madre di contenere sempre quello che serve).

Tutte le persone importanti della vita radunate insieme in due video chiamate: una coi 6 nonni, che si rivedono tutti dopo 1 mese di lontananza e parlano fra loro più che col nipote, ma il bello è proprio avergli dato l’occasione di vedersi tutti e sei. L’altra con gli amici speciali, gli zii e i cugini, persone che magari non si conoscono tutte, ma tutte hanno in comune il festeggiato e l’amore speciale per lui.

Dei regali inaspettati, spediti da amici lontani, un sacchetto da 2 kg di pasta, le foto e le lettere che raccontano quanto amore ci sia in queste stanze da cui non possiamo uscire, neanche nel giorno del tuo decimo compleanno Diego.

Se qualcosa stiamo imparando in queste giornate lente e sospese è che le cose che contano veramente non sono tante e dobbiamo curarle e coltivarle ogni giorno. Perché senza di loro, i nonni, gli zii, i cugini, gli amici, i compagni, i fratelli, la famiglia non saremmo noi, non saremmo felici.

Buon compleanno ragazzo, mi insegni sempre moltissimo.

categoria “madre rompipalle”

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Nella categoria dei genitori io mi inserisco, senza ombra di dubbio, in quella di “madre rompipalle”. Posso dire con una certa sicurezza che sono nella top ten delle madri asfissianti.

Perché raramente mi lascio scappare un’occasione per pungolare i miei figli e spingerli a chiedere un po’ di più a loro stessi. È come se ci fosse una continua domanda sospesa, spesso neanche tanto implicita: hai fatto tutto quello che potevi? hai fatto del tuo meglio? non ti sei risparmiato neanche un po’? Quando rispondono a queste domande per me la discussione, di qualsiasi genere sia, è chiusa e cerco di avere in loro una fiducia piena. Perché funziona così il nostro rapporto: la cosa più grave che possiamo fare uno nei confronti dell’altro non è sbagliare o trattarci male, ma dirci una bugia. E la regola vale sia per noi adulti che per loro, non ci sono sconti.

Sono una madre rompipalle, incredibilmente rompipalle. Una che concede poco e chiede tanto, che non si accontenta mai e che non sembra mai contenta. Una che per ogni pacca sulla spalla dà almeno due calcetti sul sedere per invitare a ricominciare a camminare. I miei figli hanno imparato presto il detto “chi si loda si imbroda”, quando ancora non sapevano cosa volesse dire. Una che per alzare l’asticella ogni volta di più va sempre in giro con la scala.

Sono questa e sicuramente sono scomoda. Ma quando vedo l’impegno e la passione con cui si buttano nelle imprese i miei ragazzi, quando sento la loro fatica e il loro lavorare a testa bassa, mi sento soddisfatta. E felice. Quando Jacopo mi dice che “gli dispiace dire di no a qualcuno che gli ha chiesto di fare una cosa”, quando Lucia viene coinvolta nelle discussioni in classe per cercare di creare le migliori condizioni per un dialogo, quando Diego si destreggia sereno tra impegni a scuola, scout, sport e altre passioni, penso che stanno crescendo bene. Sereni e solidi, aperti al mondo e rigorosi, appassionati e con amor proprio. Ci sono tante differenze tra loro tre, ognuno ha un suo modo di affrontare le cose e vivere le diverse situazioni. Ma c’è uno strato comune da cui ciascuno parte per la sua strada, fatto di affidabilità, serietà, curiosità, testardaggine, voglia di esprimersi e di ascoltare gli altri, ottimismo. Un’inquietudine positiva che li rende permeabili e capaci di farsi attraversare dalle esperienze in maniera attiva.

Sono una madre rompipalle, che li inonda di mille stimoli e proposte. Sposata con il loro padre rompipalle, che chiede molto. Ma poi vedo quale meraviglioso capitale umano abbiamo di fronte e dico che stiamo facendo solo quello che siamo chiamati a fare: aiutarli a diventare il meglio di ciò che vogliono essere.

È un fantastico lavoro, ed è toccato a noi.

crescere piccoli comunisti

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Qualche giorno fa, nel cortile interno comune tra la casa dei nonni e casa nostra; buio intorno, sono le 19. Torniamo a casa Diego e io e ci raccontiamo la giornata.

– Oggi abbiamo mangiato le caramelle a scuola –

– Come mai? –

– Le ha portate il mio compagno E. perché il 25 aprile è il suo compleanno –

– … sei sicuro? –

– Ah no, mi sono sbagliato: è il 25 dicembre il suo compleanno. Vabbè anche il 25 aprile è una data importante –

– Certo amore, è un giorno importante anche il 25 aprile –

– Anzi, secondo me è anche più importante: ci hanno liberato dai nazisti e poi c’erano i bombardamenti prima. Il 25 dicembre è nato un bambino –

Non mi si vede, ma se ci fosse un po’ di luce potreste notare gli angoli della bocca sollevati e gli occhi che sorridono. Stiamo crescendo un piccolo comunista.

– Non sei d’accordo con me mamma? –

– Si Diego, ma magari non dirlo a catechismo –

suggerimenti

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Autobus, lunedì mattina. Pioggia fuori. E già che non ci sia dentro è qualcosa che ho imparato a non dare per scontato.

Il 63 passa davanti a scuola del figlio piccolo e anche se è più lento lo prendo volentieri, perché di solito mi siedo e riesco a leggere. Passa davanti a varie scuole e tra case popolari, dove molte sono le donne velate che salgono con i bambini piccoli, dopo aver lasciato fratelli e sorelle maggiori a scuola.

Sale un uomo, tra i 45 e i 50 anni, sbraitando e urlando che il problema delle ragazze è che fanno troppi figli.

– Vi riproducete troppo, siamo 9 miliardi sul pianeta, sta scoppiando – le ragazze velate che salgono coi passeggini dopo di lui rispondono e un’altra nera alza la voce, mentre l’uomo continua ad argomentare.

– Non è una questione di razzismo, bianchi, neri, gialli: siamo troppi, bisogna smetterla di fare figli. Perché il figlio suo non è solo suo, è figlio del mondo –

Gli altri passeggeri ridacchiano di spalle, aggiungono mezze frasi “meno male che lui non si è riprodotto”.

– Certo, io non ho figli perché non saprei fare il padre, non come tutti quelli che fanno figli e poi non li sanno educare –

Devo dire la mia, perché è evidente che il suo problema è il genere umano per intero, ma non è un caso che se la sia presa con due ragazze musulmane.

– Se ce l’ha col mondo scenda dal pullman e la smetta – le ragazze adesso ridono tra loro e scambiano sguardi divertiti con i passeggeri intorno; mi guardano sorridendo, ci parliamo a distanza.

– Non ce l’ho col mondo, è il mondo che è troppo pieno. Sta scoppiando. Non si può scopare e fare figli come conigli –

Intervengono due ragazze, spiccato accento del sud Italia.

– Allora la prima che ha sbagliato a riprodursi è stata sua madre –

– Certo che ha sbagliato, se non ero nato mica morivo dal dispiacere. Tu devi studiare: vai a studiare come non rimanere incinta –

Così: per 25 minuti di viaggio, tra l’incredulità generale e discriminazioni sparse. Di religione, colore della pelle e, ovviamente, sesso. E tra la solidarietà femminile, che dei matti misogini sui pullman se ne infischia.

Grazie gtt per la commedia umana itinerante, ho iniziato la settimana col sorriso.

cosa intendiamo quando parliamo di educazione

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L’educazione ha a che fare con alcune parole: attesa, rischio, bellezza, fiducia, presenza.

Attesa dei tempi in cui i semi germoglieranno. Non c’è un acceleratore che ci permette di aver subito il risultato. Non c’è una palla di vetro che ci rassicura che quel risultato arriverà. C’è solo il tempo che deve passare, un minuto per volta. E noi, che dobbiamo continuare a innaffiare perché sotto la terra si sviluppi la vita.

Rischio di credere nel senso del nostro impegno, ma anche nel decidere di assumere una posizione. Dire sì e no. Vuol dire esporsi alle critiche, agli errori, alla necessità di tornare indietro e ammettere lo sbaglio. Vuol dire immergersi nella partita e provarci, smettere i panni di arbitro ed entrare in squadra.

Bellezza da riconoscere e far riconoscere. Quella da vedere negli altri e nelle cose ben fatte, nei lavori curati, nelle relazioni profonde, nei progetti portati a termine. Quella da coltivare dentro di sé, nella dignità della propria coscienza, nella consapevolezza dei propri limiti, nella capacità di vedere nel mondo occasioni di crescita e ricchezza.

Fiducia che i giorni futuri siano tempi di evoluzione, non di involuzione. Che ciò che progredirà non saranno solo le possibilità di ciascuno di noi, ma la nostra umanità, la capacità di stare insieme e avere sogni collettivi.

Presenza, perché bisogna essere lì, insieme nello stesso spazio. Non esiste l’educazione a distanza, esiste il qui e ora, perché educare significa cogliere tutte le occasioni per parlare, riflettere, incontrarsi e scontrarsi. Per aiutarsi reciprocamente a capire chi siamo e chi vogliamo essere.

L’educazione ha a che fare con la vita, dura per sempre e riempie ogni spazio e ogni momento. Non ci sono pause o stand by, come non si può mai smettere di respirare.