il campo continua

Standard

«40 anni fa don Andrea Ghetti – BADEN terminava la sua corsa terrena, a causa di un incidente d’auto durante la Route in Francia con il suo Clan Milano 1. L’ultimo messaggio che lasciò ai suoi ragazzi è «il campo continua». The show must go on. Quella Route finì bruscamente e la ripresa fu dura. Ma si continuò.»

Quello qui sopra è uno stralcio di un post del gruppo facebook Fedeli e Ribelli che continua a raccontare e a condividere il messaggio delle Aquile Randagie, gli scout che durante il fascismo continuarono a fare attività in clandestinità in val Codera e portarono avanti i valori dello scoutismo.
Questi sarebbero giorni di campi, me lo ricorda costantemente il mio calendario del cellulare. Sarebbero giorni in cui pensarli felici, con le mani e le ginocchia sporche, le labbra secche per il sole, la voce roca per i canti. Sarebbero giorni in cui iniziare a pensare a cosa portare alla giornata dei genitori: il pollo fritto (anche quello con l’impanatura senza glutine per Cristiana) e l’insalata di pasta, la parmigiana con cui Micaela e Silvia si sfidano e ancora non abbiamo deciso chi la faccia più buona, la pizza di pasta di Fortuna, i rotolini con la nutella di Patrizia, l’anguria che segna proprio l’inizio delle vacanze. Sarebbero giorni di cammino, giochi, condivisione, fatica, impegno, verifica.

Invece gli zaini sono appesi letteralmente al chiodo nel nostro sgabuzzino, le camicie stirate nell’armadio, gli scarponcini fermi nella scarpiera del balcone. La bussola continua a segnare il nord, ma non ci sono passi per raggiungerlo. Dopo la scuola, i viaggi oltreoceano e gli abbracci siamo rimasti anche senza campi. Dico siamo perché anche se sono i figli a indossare i pantaloncini di velluto e a mettere al collo un fazzolettone, tutti e 5 viviamo lo scoutismo che, come “sente” benissimo chi lo conosce, è una scelta educativa di famiglia.

La ripresa è stata – per chi non ha ricominciato sarà – dura, ma per quanto sia diverso e difficile si deve continuare. Lo scoutismo deve continuare perché questa società ne ha fortemente bisogno. Perché ancora non ho trovato un altro ambiente educativo in cui il centro riescano a essere contemporaneamente l’individuo e la comunità. Un ambiente in cui si faccia esperienza di impegno, responsabilità, condivisione, speranza, progettualità. Un luogo in cui si cresce insieme – bambini, ragazzi, adulti, famiglie – nel rispetto reciproco, nell’autonomia, nella corresponsabilità, nell’autoeducazione. Nella correzione fraterna, che vuol dire sentire la responsabilità di osservare se stessi e gli altri per capire gli errori di ciascuno e mettersi uno a fianco dell’altro per correggerli e crescere. Aiutarsi e aiutare gli altri a fare sempre del proprio meglio.

Lo scoutismo deve continuare, trasformandosi, a rispondere alle sfide dei tempi, momentanee o stabili che siano. Gli strumenti del metodo si evolveranno, le tradizioni e le abitudini di ogni singolo gruppo cambieranno con il contesto e le persone che vivono in quella comunità, si faranno cose diverse in modi diversi. Ma resterà il cuore di tutto: l’educazione che mette al centro bambini e bambine e il loro impegno per fare del proprio meglio, ragazzi e ragazze e la capacità di essere pronti a cogliere ciò che la vita offre, uomini e donne e la scoperta della felicità nel mettersi al servizio degli altri, per costruire una società giusta, leale, accogliente.

“nessun profumo vale l’odore di quel fuoco…”: abbiamo bisogno di continuare a sentirlo.

finalmente

Standard

Questa mattina ho aperto gli occhi e la luce entrava dalle righe della tapparella non completamente abbassata. Ho guardato la radiosveglia e ho deciso di alzarmi, prima che partisse il giornale radio.

Ho tagliato la torta salata che ieri sera avevo preparato, ho lavato le ciliegie, ho preso 6 contenitori diversi e li ho impilati uno sull’altro dopo averli riempiti.

Sono entrata in camera dei ragazzi, sono salita sulle scalette dei loro letti a castello ed è bastato toccargli le gambe per farli svegliare. Meno di due minuti dopo erano tutti e due in cucina sufficientemente svegli per fare colazione. Abbiamo mangiato insieme, abbiamo ritirato le tazze sporche, ci siamo vestiti e siamo usciti.

Finalmente questa mattina abbiamo avuto voglia di alzarci tutti. Finalmente abbiamo chiuso la porta di casa dietro le nostre spalle per tornare nel mondo. Finalmente stiamo tutti in posti diversi: chi all’estate ragazzi, chi da un’amica, chi a lavoro. Finalmente ricominciamo a respirare, perché i giorni prima di questo erano asfittici, arrotolati su loro stessi, ingarbugliati, pieni e inutili.

Abbiamo rispettato le regole, vissuto il distanziamento con rigore e costanza, protetto gli altri intorno a noi da qualcosa di cui potevamo essere portatori senza neanche saperlo. Abbiamo cercato di far sentire la gentilezza nel timbro della voce, nelle rughe che si formano intorno agli occhi quando si sorride, nei modi accoglienti e disponibili. Perché anche se quelle mura di casa ci hanno a lungo contenuto, anche se le nostre mani non potevano correre verso altre mani per stringerle non abbiamo mai avuto il dubbio che la felicità vera, quella che vuol dire compiere appieno la nostra vita, sarebbe tornata solo quando ci saremmo di nuovo messi in cerchio con altri, quando avremo ricominciato a mangiare con gli amici, a correre coi compagni, a crescere insieme.

Finalmente oggi siamo tornati nella nostra vita, tutti. E non abbiamo paura, seguiamo le regole e continuiamo (perché non abbiamo mai smesso) a fidarci del mondo. Ci sono ancora delle nuvole, ma come ripeto spesso ai miei figli “non esiste buono o cattivo tempo, esiste solo buono o cattivo equipaggiamento”. E noi siamo equipaggiati.

Con i centri estivi è iniziata l’estate ed è ricominciata la vita.

rappresentanza, questo incredibile mistero

Standard

Ho un problema con la rappresentanza, da sempre. Credo che le origini di questa turba nascano da quello che ho respirato fin da piccola – odore di responsabilità – e dal cibo con cui sono stata svezzata – pane e politica. La frase che ho sentito più spesso dire dagli adulti che ho avuto la fortuna di avere intorno (genitori, nonni, amici di famiglia, professori) è “hai fatto una parte del tuo dovere”. E io su questa parte, che evidentemente non era il tutto, ho costruito quel senso di dover fare sempre un passo in avanti e chiedermi, dopo ogni cosa, se avessi fatto tutto ciò che avrei potuto fare.

È questa l’abitudine che mi crea un enorme problema con la rappresentanza e come viene interpretata dal mondo intorno. Perché, per come la intendo io, non basta inoltrare una mail, un file, una circolare: bisogna aiutare a interpretare chi magari ha meno strumenti, poca attenzione, meno consapevolezza del valore di ciò che significa essere in una comunità. Non basta essere seduto su una sedia durante una riunione di un organo collegiale se si ha la stessa reattività della pianta di plastica che si ha alle spalle. Perché lì bisognerebbe condividere idee, delineare percorsi, voler capire, definire principi e valori che guidano la quotidianità. Non basta occuparsi dei progetti all’inizio, quando la scintilla ha appena infiammato la paglia e la fiamma è bella colorata. Perché quel fuoco non scalda un granché e fa soltanto scena; invece bisogna restare nei progetti dall’inizio e fin oltre la fine, in quella fase che si chiama verifica e che così pochi sanno che esista. E invece è l’inizio di tutto, il soffio leggero sulle braci che daranno vita alla nuova combustione.

Ho un problema con la rappresentanza perché penso che chi decide di rappresentare qualcuno dovrebbe sentire su di sé una continua tensione a mettersi al servizio degli altri con onestà intellettuale, competenza, passione, continuità, serietà. E dovrebbe essere un po’ più brillante, consapevole, attento, capace. Non basta la buona volontà, bisogna essere adeguati al ruolo. E invece non è così e a questo punto mio marito mi direbbe “ancora ti stupisci?” e ha ragione: io casco sempre dalle nuvole in queste cose. Siamo in tempi di rappresentanza alternata, come il traffico nelle strade con lavori. Con un semaforo che si è incantato sul rosso, il tempo del riposo. E mentre i rappresentanti dormono, la comunità si dissolve.

da che parte stare

Standard

Sto facendo dei pensieri in questi, giorni, settimane, mesi. E non sono pensieri leggeri. La mia vita è felice, incasinata il giusto o leggermente un po’ più del giusto. Le strade di fronte a me e ai miei ragazzi sono aperte, potranno essere quello che vorranno, che sapranno sognare e realizzare. I miei amici e colleghi sono persone con cui condivido progetti, valori, azioni e principi. Va tutto bene.

Ma quando esco dalla mia bolla il mondo intorno è colmo di brutture, di rabbia, di violenza, di ingiustizia. E ogni giorno che passa tutto questo aumenta e diventa normale, accettabile, nella migliore delle ipotesi un effetto collaterale che dobbiamo accettare: per garantirci la “sicurezza”, perché “mica gli altri prima erano tanto meglio”, perché “prima i nostri”.

Sto pensando che mentre la mia vita procede, intorno ci sono vite in pericolo. Quella di Angele e di tutti i ragazzi e le ragazze di colore, magari adottati da famiglie che quando li mandano da soli in pullman o in pizzeria con gli amici sperano che non gli capiti di incontrare qualcuno che si senta in diritto di insultarli e dirgli di tornare “a casa loro”. E si permetteranno di dirlo a loro, non ai miei figli che hanno la pelle del colore “giusto”.

Quella di Manuela che è sposata con una donna e ha la corazza dura e non mi racconta la fatica, le discriminazioni, i giudizi. Ma sono tutte ferite dentro di lei, cicatrici che la segnano.

Quella dei ragazzi che Lucrezia ed Enrica incontrano ogni giorno, arrivati in Italia di nascosto, che vivono in un tempo di attesa, senza diritti, senza prospettiva, senza possibilità di progettare il proprio futuro.

Mentre la mia vita va avanti, c’è un altro pezzo di questo stesso mondo che non ha diritto a una vita dignitosa, che rischia ogni giorno per il solo fatto di essere com’è: nero, omosessuale, povero. E in questo tram su cui sono adesso, potremmo contare quanti pensano che questo sia un effetto collaterale che dobbiamo accettare, una stortura del mondo che non possiamo caricarci addosso. E non ci basterebbero le dita delle mani e dei piedi di molti di noi.

Stiamo scivolando su un piano inclinato, rotolando sempre più giù, accettando il degrado più folle e inumano. Come se fosse normale, accettabile, inevitabile.

Tutto questo mi sta logorando, mi sta consumando dentro. E non posso più incontrare le persone e fare finta di niente: non posso comprare la frutta o il pane da qualcuno che pensa che i porti debbano restare chiusi e le navi delle ong affondate, non posso salutare un vicino di casa che pensa che l’omosessualità sia una malattia, non posso cenare con degli ex colleghi che pensano che sparare a un uomo alle spalle che ha rubato a casa tua sia legittima difesa. Si difende la vita, prima di tutto.

Non posso più, perché l’imparzialità sui valori non può esistere. Perché siamo tutti, per sempre coinvolti e responsabili di ciò che sta accadendo intorno a noi. Perché è il momento di scegliere da che parte stare e ce n’è una che rispetta l’umanità e poi c’è l’altra. Che la maltratta, la violenta, la lascia morire, la uccide.

ps. nella foto, una rosa di Sarajevo

il mio anno e quello intorno

Standard

Il mio anno è il ragazzo nero che davanti al supermercato di zona mi saluta ogni mattina e mi chiede “come sta mamma?”; è quello del pomeriggio che parla in inglese con i bambini della materna in lingua che entrano lì di fianco.
L’anno intorno sono i cori razzisti allo stadio, gli articoli che parlano di aggressioni a persone di colore sui mezzi pubblici, gli slogan “prima gli italiani” che leggi ogni giorno sui social network e senti dire, magari con parole diverse, a voce sempre più alta al mercato.

Il mio anno è una famiglia di origine marocchina che è andata in Francia, forse per le vacanze di Natale o forse per la vita. Perché qui il papà non trova lavoro da quasi un anno e la mamma fa qualche ora in casa nostra, ma non abbastanza per mantenersi. E anche se i figli di 12 e 8 anni non vorrebbero andar via da qui, dal paese in cui sono nati e vanno a scuola, dovranno seguire i loro genitori, la loro mamma così coraggiosa e mite. E le sue lacrime, quando ci siamo salutate, mi sono rimaste addosso. Aspetto l’inizio della scuola qui in Italia per scoprire se torneranno a casa o se proveranno una nuova vita lì, dove sembra ci siano più opportunità, dove Fatima potrà offrire ai suoi figli qualcosa in più forse.
L’anno intorno sono barche cariche di donne, uomini e bambini lasciate nel mare, con sopra i volontari che cercano di alleviare la fatica. Intorno ci sono stati che chiudono i porti e ne vanno orgogliosi. Sopra elicotteri che sollevano sospeso nel vuoto un bambino di pochi giorni e la sua mamma, per portarli in un ospedale, per dargli una speranza di vita.

Il mio anno sono maestre e professori che abbraccio come se fossero amiche e sorelle, con un affetto che si nutre di giorno in giorno, di figlio in figlio, di colloquio in colloquio. Sono figli che imparano a faticare e a raccogliere i risultati del loro impegno, che scoprono che la lettura e la conoscenza possono essere ciò che rende bella la loro vita, gli strumenti per costruire il loro futuro.
L’anno intorno mi parla di atti di bullismo di genitori contro i professori dei loro figli, di insegnanti che hanno gettato la spugna e non vedono nei ragazzi che hanno di fronte le potenzialità enormi che si nascondo dietro a un trucco troppo pesante, ai brufoli sulla fronte, ai modi strafottenti o timidi. Mi parla di personaggi pubblici che della loro mancanza di cultura e studio ne fanno un vanto, che non percepiscono la differenza tra chi è competente e chi è incompetente, che parlano di ogni argomento senza la minima preparazione.

Il mio anno sono vecchi amici che si ritrovano nelle difficoltà, di malattie che sanno far emergere l’amore e la vicinanza, di prove difficili affrontate insieme, con coraggio e speranza. Sono nuovi incontri, intorno a un progetto bello che parla di bene comune, di prendersi cura del nostro territorio, di cittadinanza e rapporto con gli altri, che prima sono persone e tutto il resto viene dopo. Sono famiglie che festeggiano insieme non per perpetrare una farsa, ma perché siamo legati, nella buona e nella cattiva sorte, nei giorni normali e in quelli di festa.
L’anno intorno è il pessimismo di chi dice che tanto non cambia niente e così è giustificato a non fare, di chi rinuncia a manifestare il proprio dissenso perché sono tutti ladri, di chi accetta leggi e atti inaccettabili e inumani perché “gli altri non hanno fatto di meglio”. Di chi passa il tempo a dire cosa dovrebbero fare gli altri e non si mette mai a fare.

Per il 2019, vi auguro il mio anno.

il prima e il poi (l’io e il noi)

Standard

Nota: il post è da leggere ascoltando una canzone di Gaber (a caso); se non sapete quale scegliere suggerisco questa “La parola io“.

Prima c’è il diritto, quello di livello alto, “costituzionale”, inalienabile, inappellabile, insuperabile (come il tonno).
Poi c’è la scelta di vivere in una comunità e di accettarne le regole di comportamento, le prassi, i principi morali.

Prima c’è la patria potestà, che poi si potrebbe anche dire “e qui comando io, e questa è casa mia”, con la non sottile differenza che il qui è un figlio e la casa è qualsiasi posto egli frequenti, dalla scuola al campo di basket, dall’oratorio al corso di inglese, dall’estate ragazzi al campo scout.
Poi c’è la scelta di delegare un pezzo della propria patria potestà ad altri (gli insegnanti, gli allenatori, gli animatori, i capi scout) perché in ogni ambito che nostro figlio frequenta ci sia qualcuno che definisce regole per un gruppo (e non solo per lui) con lo scopo di costruire insieme il bene comune.

Prima ci sono i principi, su cui non si può transigere, che non vanno mai messi in discussione, che pretendono guerre sante e nuove crociate per affermarli, oltre ogni ragionevolezza. Che parlano spesso di forma, quelli per cui “il fine giustifica i mezzi”.
Poi ci sono i valori, quelli che non dovrebbero essere negoziabili, quello che richiedono umanità ed empatia per essere affermati e diffusi, come un contagio positivo che ci lascia più umani e interi. Che parlano di contenuti, quelli per cui non puoi distinguere tra fini e mezzi, è un tutt’uno.

Prima ci sono io.
Poi ci siamo noi.

Per adesso siamo nel prima. Impantanati in questa libertà che possiamo anche tradurre con “facciamo il cazzo che ci pare”. Barricati dietro la patria potestà che diventa “tu a mio figlio non puoi dire niente, solo io lo posso educare”. Armati di principi (e questioni di principio) che ci impediscono di avere mani, mente e cuore libero per parlare e confrontarci sui valori, sulla senso di comunità e solidarietà, sulla costruzione e responsabilità verso il bene comune. Sull’io, prima persona singolare, che non ammette il plurale.

Forse arriveremo al poi (e al noi), ma stasera non vedo la strada.

il cibo rende felici (anche quello avanzato)

Standard

Ieri, davanti alla scuola elementare, sento il dialogo tra padre e figlio che riporto fedelmente qui sotto.

Padre – Hai mangiato oggi? –
Il figlio risponde qualcosa che non sento bene, ma è una risposta incerta, di quelle che servono a prendere tempo accampando varie scuse.
Padre – Così non va bene, anche ieri non hai mangiato. Ieri sera ti abbiamo chiesto cosa volevi mangiare. Guarda che vado a ritirare il foglio in segreteria e torni a mangiare alla mensa scolastica –

Qui si apre la necessità dei sottotitoli per i lettori che non hanno figli alle scuole elementari o medie, che non abitano a Torino o provincia, che sono felicemente ignari circa la questione delle mense scolastiche.

Da quest’anno i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie potranno non essere iscritti alla mensa scolastica fornita dal comune e portarsi il pasto da casa. Ancora non si capisce bene come potranno consumarlo, dove, come sarà conservato e di chi sarà la responsabilità di controllare che non ci siano scambi di alimenti. Le scuole, oltre a doversi occupare di supplenti non ancora nominati, cattedre vacanti e strutture scolastiche non sempre idonee, si stanno occupando di trovare una quadra tra il “diritto al pasto da casa” e il valore educativo della condivisione dello stesso pasto per bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni. I genitori si dividono in fazioni, tra chi indossa l’armatura per combattere la battaglia del panino, vissuta come un diritto inalienabile dell’uomo sancito dalla costituzione, dalle nazioni unite e forse anche dalla legge cosmica, chi per nulla al mondo farebbe rinunciare al figlio al momento educativo del pranzo in mensa, chi riconosce il momento educativo ma “a scuola non mi mangia niente, invece a casa mangia di tutto. Beh, certo a parte le verdure…” .

Io sono della seconda specie, anche un po’ estrema. Io sono di quelle che quando organizza il pigiama party con le amiche della figlia di mezzo fa valere la stessa regola che vige tutti i giorni a casa: per colazione si finiscono i biscotti aperti, se non li mangi vuol dire che non hai fame. Io sono della specie per cui quando al centro estivo in cui lavoravo un bambino ha buttato un’albicocca dopo aver dato un morso perché era un po’ aspra, l’ho raccolta dal cestino, l’ho lavata e gliel’ho ridata da finire.

Quando ho sentito l’edificante dialogo tra padre e figlio sono stata felice. Perché l’educazione non è una gara dei cento metri piani, ma una maratona. E se oggi cedi ai capricci del figlio e gli cucini ogni sera quello che vuole, al traguardo dei 42 km non ci arriverai. E non ci arriverà neanche lui.

Vado a mangiare gli avanzi di ieri sera, mentre Diego per la prima volta affronta il refettorio della scuola elementare, il vassoio da prendere, i compagni di fianco a cui sedersi, il cibo della mensa.
Buon appetito ragazzo, aspetto questa sera per sentire i tuoi racconti.

A volte fa bene

Standard

Dopo un periodo di festa tutti abbiamo dei peccati da confessare. A volte riguardano la gola e le coccole alimentari che ci siamo concessi. A volte l’ingordigia di eventi, incontri, relazioni che ci lasciano più stanchi di quando lavoriamo.

Se sei una mamma e hai almeno un figlio (ma se ne hai almeno due è quasi una certezza), i peccati che hai commesso riguarderanno quasi sicuramente l’ira, quella che si impadronisce di te di fronte ai tuoi figli che litigano, si picchiano, non riordinano, scappano pur di non fare i compiti.

E se avrai il coraggio di confessare le tue colpe scoprirai che non sei sola. Che un papà che sembra la quint’essenza della serenità alza la voce di fronte alle sue figlie quando loro si mettono a ridere se lui le sgrida (e mia figlia lo fa, reagisce alla mia rabbia con una risata isterica a cui io reagisco a mia volta lavandole la faccia con l’acqua fredda).

Che una mamma con due figli che a te sembrano sempre super educati a volte si fa scappare una sculacciata e anche i suoi figli mettono le braccia davanti al corpo come per proteggersi appena lei è arrabbiata e li sgrida.

Che un’amica che quando parla sorride e ride sempre, usa le tue stesse parole per sgridare i suoi figli e li mette in castigo per un mese come fai tu, segnando la data sul calendario.

Come in un gruppo di auto mutuo aiuto, a volte fa bene confessare le proprie colpe, i propri attacchi d’ira e i propri eccessi, anche quelli di cui ci si vergogna (e io ne ho). Perché si scopre che siamo in tanti a essere umani, che i figli e i genitori in fondo replicano dei comportamenti simili a quelli di altri figli e altri genitori. E dopo aver confessato le proprie colpe siamo più pronti a perdonarci e a perdonare i nostri figli.

questa è casa mia

Standard

C’è il microfono che non funziona bene e che viene spento e mai riacceso ad ogni intervento.

C’è il ragazzo che sul palco si mette esattamente dietro la scenografia e resta coperto per tutta la sua parte di scenetta, ma penso che sia stata una scelta volontaria.

C’è il gioco di fiducia di quello che si butta sulle braccia dell’altro di spalle, senza guardare, proposto ad adulti che (forse) si conoscono di vista.

Ci sono gli stralci del film I cento passi trasmessi in video, il discorso sulla bellezza che salverà il mondo, la canzone cantata insieme. La stessa che abbiamo cantato per salutare un’amica che aveva deciso di smettere di camminare su questo mondo.

Ci sono i piccoli che non sanno leggere che cantano una canzone che dovrebbero leggere su un cartellone, ma i loro neuroni sono belli freschi ancora e quindi l’hanno imparata a memoria in un pomeriggio.

C’è il ragazzo del Senegal conosciuto in una comunità di accoglienza per profughi seduto in prima fila, nero come il giubbotto di pelle nera che ha addosso,che sale timido sul palco in mezzo a quei ragazzi che ha conosciuto una settimana fa e si commuove a dire che lui in Italia sta benissimo e che è felice di essere con noi stasera.

Ci sono i biscotti al burro fatti passare tra i genitori seduti, preparati dai ragazzi e gli angioletti di carta ritagliati dai bambini oggi pomeriggio, segni di questa serata che ci portiamo a casa. Come un nastrino verde che tre anni fa affidavo a Valeria e che è ancora con lei.

C’è Oh happy day, cantata tutti insieme, e se sei stato scout non puoi non averla già cantata a qualche veglia.

Ci sono le chiacchiere una volta tornati a casa, con i ragazzi ancora in uniforme, con gli occhi che si chiudono dalla stanchezza. E in quel momento intorno al tavolo io trovo il nostro senso di famiglia, che è fatto anche di scoutismo, di condivisione di un’esperienza che tanto significa per ciascuno di noi.

Ci siete voi, bambini, ragazzi e adulti che mi camminate a fianco, amici vecchi e nuovi. Siamo davvero fratelli e sorelle, basta davvero uno sguardo perché i nostri cuori si parlino. Basta aver messo un fazzolettone al collo e aver avuto una promessa cucita all’altezza del cuore per sentirsi a casa questa sera.

apocalittici e integrati

Standard

Quando andavo all’università si parlava molto (e devo ammettere di non averlo mai letto) di un saggio di Umberto Eco, Apocalittici e integrati, per rappresentare due atteggiamenti opposti rispetto ai mezzi di comunicazione di massa. Il saggio è del 1964 e da allora di passi in avanti (o indietro) se ne sono fatti molti. Ho sempre pensato che si debba avere un atteggiamento da integrati consapevoli: dei punti di forza e di quelli di debolezza di strumenti che possono trasmettere qualsiasi messaggio, ma che possono anche trasformarlo, proprio per le loro caratteristiche intrinseche.

Da una settimana il web è stato il centro delle mie giornate, con un controllo compulsivo dei social network alla ricerca di aggiornamenti su ciò che mi sta a cuore, di modi per allargare la cerchia di “persone informate sui fatti”, di sostegno da offrire e da ricevere. Ed è stato il mondo anche di mio figlio Jacopo che durante le partite dei mondiali chatta (attraverso il mio telefono) con un buffo gruppo di ascolto, composto da 12enni e 40enni, amici suoi (che usano il telefono delle mamme) e amici miei (che si ritrovano improvvisamente giovani).

Il web e le chat in questa settimana hanno avuto un fortissimo potere aggregante, hanno sostituito il trovarsi fisicamente in un posto (cosa che sarebbe stata difficile o innaturale) e mi hanno connesso con molte persone, di cui conoscevo solo in parte le storie. Mi hanno trasmesso quel senso di comunità che nei momenti difficili ti fa stare a galla, quel calore che ti serve quando l’attesa diventa estenuante e sembra essere senza un orizzonte. E hanno dato un senso alle partite viste da Jacopo, come quando noi eravamo giovani e ci ritrovavamo tutti insieme a vederle.

Forse le prossime partite le vedremo tutti insieme, forse le stesse persone di cui leggo su fb le incontrerò tra poco, per festeggiare la fine della paura. Ma adesso sappiamo, una volta di più, di essere comunità. E abbiamo bisogno di comunità, di vicinanza. Di affrontare insieme il domani.