siamo entrati nel tunnel

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Eravamo sfuggiti fino a ora, scivolando tra un contatto stretto e l’altro, driblando compagni, colleghi, amici, vicini di casa, parenti. Avevamo passato indenni il 2020 e contavamo che il 2021 si aprisse con fiducia, speranza e buoni auspici. E invece febbraio ci ha sedotti e poi abbandonati. Illusi da un tampone negativo della figlia di mezzo eravamo convinti che la fortuna fosse dalla nostra parte e invece è caduto sul campo il figlio grande, risultato positivo il 2 febbraio, un giorno dopo la buona notizia di sua sorella. E così sperimentiamo anche noi l’isolamento di un membro della famiglia per ogni momento della giornata (dormire_mangiare_studiare_lavarsi_oziare_guardarelatv_leggere), passiamo alcol sulle maniglie delle porte, riceviamo il pane e il latte grazie a parenti che ce lo depositano nell’ascensore, siamo ripiombati nella didattica a distanza e nello smart working totale (e totalizzante) e i referenti dell’asl sono ormai i nostri migliori amici (ci chiamano un paio di volte al giorno).

Sì, mio figlio grande è positivo e ho anche cercato per qualche giorno di ricostruire la catena del contagio, ma non ne sono stata capace e in ogni caso (come ha sempre detto mio marito) è un esercizio inutile e dannoso. Perché l’unica cosa vera è che è stato contagiato perché vive in una società. Va a scuola (solo da due settimane, 6 giorni effettivi di didattica in presenza), come io vado a lavoro. Prende i mezzi pubblici, come li prendo io. Scambia due parole con i compagni di classe o con gli amici all’aperto, come faccio io con mia sorella sotto casa o con la mia collega mentre andiamo a ritirare il pranzo d’asporto. Fa sport distanziato e all’aperto, come lo faccio io quando vado a correre la domenica pomeriggio nel parco. Vive una vita che definire normale non si può, ma di cui aveva iniziato ad assaporare giorno per giorno ogni singola riconquista: la scuola in presenza, la ripresa dello sport (non ancora col contatto), le attività scout, un pomeriggio con un’amica.

Non c’è colpa nell’essere contagiato, perché ha fatto (come me) tutte le attenzioni necessarie: ha indossato la mascherina sempre, ha tenuto le distanze, ha rinunciato a feste, pranzi, partite di basket al campetto. Perché se fosse così difficile beccarsi sto virus, credete che ci sarebbero tutti questi contagi? Chi cerca nei contagiati il comportamento scorretto in fondo sta dicendo che “se la sono cercata” (quindi sono dei cretini) e a lui o lei non potrà mai capitare.

Mio figlio quasi 17enne è positivo, ma non ho mai avuto paura che lui portasse il virus in casa (come non ho paura che lo porti sua sorella 14enne o suo fratello di 10 anni). Perché tutti possiamo portarlo, perché tutti siamo tornati a fare le attività che sono consentite e per questa scelta non abbiamo alcun rammarico. Mio figlio quasi 17enne è positivo e mi sto tenendo distante da lui adesso, perché cedere alla voglia di abbracciarlo e dargli un bacio prima di andare a dormire sarebbe irresponsabile nei confronti degli altri due figli che sono bloccati in casa in quarantena. Ma non l’ho mai tenuto distante prima, l’ho abbracciato e baciato (solo quando me lo ha concesso), ho bevuto a volte nello stesso bicchiere suo e ho condiviso la normale vita di una famiglia. Gli ho ricordato di lavarsi le mani quando rientrava a casa, ma non l’ho ossessionato. Perché se avessi avuto paura di mio figlio avrei dovuto avere paura del mondo e di me stessa per prima, perché ognuno di noi può essere vettore, anche inconsapevolmente e senza responsabilità. E il problema non è eventualmente chi può contagiare nonni, ma il fatto stesso che i nonni possano essere contagiati (prima nota: la nonna 71enne è stata contagiata, negli stessi giorni del nipote e chissà chi dei due è stato vettore per l’altro; seconda nota: i miei figli hanno continuato a vedere i nonni in questi mesi, perché i nonni avevano bisogno del contatto con i nipoti per restare sani).

Mio figlio quasi 17enne è positivo al covid e noi 5 siamo tutti insieme sulla stessa barca, o meglio nella stessa casa. Il rischio zero nella vita non esiste e anche esistesse credo che quella non sarebbe la vita che vorrei vivere e che proporrei ai miei ragazzi. Mangiamo in posti diversi collegati con FaceTime e ci fanno ridere sempre le stesse cose: le battute cretine, i rutti, le prese in giro. Usciremo dal tunnel insieme, perché vivere distanti non è vivere.

un’alleanza

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Dicevamo che saremmo stati migliori. Che avremmo abbracciato vicini e lontani, che avremmo capito cosa conta davvero: gli aspetti educativi della scuola e non solo quelli normativi, la relazione tra le persone, la vita all’aria aperta, il valore della professionalità di ciascuno (abbiamo applaudito dai balconi per medici, infermieri, netturbini, commessi del supermercato, genitori, dogsitter e cani, runner, zii e cugini di settimo grado, parcheggiatori abusivi e ovviamente scienziati fino a toglierci la pelle dalle mani).

Dicevamo.

E poi siamo tornati pian piano alla vita quotidiana. Con un’ansia per le norme che sembra farci dimenticare tutto il resto. Soprattutto ci fa dimenticare che quello che serve è un’alleanza. Tra i genitori e la scuola, che ha fatto un lavoro enorme per mettere nelle stesse aule tutti gli alunni di una classe. E se la finestra è ancora rotta, possiamo capire che la mancanza non è della dirigente o della professoressa di italiano. E sì, hanno sollecitato e lo fanno tutti i giorni a prescindere dalle nostre segnalazioni, perché la scuola sta loro a cuore.

Possiamo come maestre accogliere i genitori che accompagnano i bambini nel cortile della scuola elementare all’ora precisa definita dalle nuove norme con un sorriso e chiedere, sempre con il sorriso, che entrino solo alle 8 in punto, perché altrimenti il cortile si riempie di persone e il distanziamento ce lo dimentichiamo. E possiamo anche chiederci se l’ingresso allo scoccare dell’ora sia risolutivo o se l’assembramento semplicemente si creerà sul marciapiedi fuori dalla scuola e allora nella sostanza, sarà la stessa cosa.

Possiamo pensare che ciascuno sta facendo il proprio lavoro con mille dubbi, senza sapere cosa sia meglio, con il bisogno che gli altri suggeriscano miglioramenti partendo però dal presupposto che dietro quella scelta c’è molto ragionamento, molta buona volontà, molta competenza. E questo merita comunque rispetto.

Possiamo stringere un’alleanza, capire che siamo tutti dalla stessa parte, con l’obiettivo di tornare a portare i bambini e i ragazzi a scuola non solo perché gli adulti devono tornare a lavorare, ma perché la scuola (e anche il lavoro) è socialità, crescita, confronto e incontro, costruzione della propria identità, realizzazione di sé.

Possiamo iniziare a guardarci negli occhi e tirarci su le maniche, per costruire insieme. Perché indossiamo la stessa casacca e siamo nella stessa squadra: quella degli esseri umani.

didattica a distanza (o distanza dalla didattica)

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Ho tre figli, in tre scuole diverse. Ho tre registri elettronici da controllare, tre siti delle rispettive scuole. Ho tre chat di classe (si, anche alla scuola superiore c’è la chat dei genitori e si parla anche lì di libri persi e compiti troppo onerosi). Tutto ciò è già impegnativo in tempi normali, quando le giornate sono scandite da impegni che si ripetono con rassicurante regolarità.

In tempi di Coronavirus avere tre figli è una prova sovraumana. Perché le scuole sono chiuse da 6 giorni e non si sa se riapriranno tra un giorno o quattro. Perché le attività sportive sono sospese, poi riprendono, poi cambiano sedi e orari (perché userebbero le palestre delle scuole, quelle chiuse). Perché in ogni registro elettronico devi controllare circolari e avvisi, nuovi compiti assegnati, comunicazioni che vengono corrette o smentite due ore dopo. Perché in ogni chat c’è qualche famiglia che posta ogni articolo trovi sui social, diffonde notizie di casi di contagio nel bar del quartiere ottenute da fonte certa (il cognato dell’amante del macellaio che passava da lì per caso).

E poi c’è lei: la didattica a distanza. Che in alcuni casi (rarissimi) significa usare uno strumento già sperimentato in classe (Google drive) per dare qualche esercizio su argomenti già affrontati insieme. In tutti gli altri vuol dire aggiungere sul registro elettronico indicazioni del tipo “fare da soli il sistema muscolare, appuntarsi le domande e fare lo schema lasciando gli spazi bianchi per i concetti che non sono chiari”. Ecco, io non sono insegnante o pedagogista, ma non credo che la didattica a distanza sia questa. Non credo sia sbolognare a studenti a casa (con nonni, babysitter, vicini di pianerottolo o da soli) l’onere di fare parte del programma in autonomia. La didattica a distanza è qualcosa di molto più ricco e complesso, che si costruisce, come ogni buona pratica, in tempi “di pace”. E che si dimostra qualcosa di utilissimo in tempi difficili.

Perché nell’educazione serve sempre progettualità a lungo termine, non soluzioni improvvisate in situazioni di emergenza. Educare è seminare, non raccogliere. E neanche buttare semi in una giornata di vento.

da che parte stare

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Sto facendo dei pensieri in questi, giorni, settimane, mesi. E non sono pensieri leggeri. La mia vita è felice, incasinata il giusto o leggermente un po’ più del giusto. Le strade di fronte a me e ai miei ragazzi sono aperte, potranno essere quello che vorranno, che sapranno sognare e realizzare. I miei amici e colleghi sono persone con cui condivido progetti, valori, azioni e principi. Va tutto bene.

Ma quando esco dalla mia bolla il mondo intorno è colmo di brutture, di rabbia, di violenza, di ingiustizia. E ogni giorno che passa tutto questo aumenta e diventa normale, accettabile, nella migliore delle ipotesi un effetto collaterale che dobbiamo accettare: per garantirci la “sicurezza”, perché “mica gli altri prima erano tanto meglio”, perché “prima i nostri”.

Sto pensando che mentre la mia vita procede, intorno ci sono vite in pericolo. Quella di Angele e di tutti i ragazzi e le ragazze di colore, magari adottati da famiglie che quando li mandano da soli in pullman o in pizzeria con gli amici sperano che non gli capiti di incontrare qualcuno che si senta in diritto di insultarli e dirgli di tornare “a casa loro”. E si permetteranno di dirlo a loro, non ai miei figli che hanno la pelle del colore “giusto”.

Quella di Manuela che è sposata con una donna e ha la corazza dura e non mi racconta la fatica, le discriminazioni, i giudizi. Ma sono tutte ferite dentro di lei, cicatrici che la segnano.

Quella dei ragazzi che Lucrezia ed Enrica incontrano ogni giorno, arrivati in Italia di nascosto, che vivono in un tempo di attesa, senza diritti, senza prospettiva, senza possibilità di progettare il proprio futuro.

Mentre la mia vita va avanti, c’è un altro pezzo di questo stesso mondo che non ha diritto a una vita dignitosa, che rischia ogni giorno per il solo fatto di essere com’è: nero, omosessuale, povero. E in questo tram su cui sono adesso, potremmo contare quanti pensano che questo sia un effetto collaterale che dobbiamo accettare, una stortura del mondo che non possiamo caricarci addosso. E non ci basterebbero le dita delle mani e dei piedi di molti di noi.

Stiamo scivolando su un piano inclinato, rotolando sempre più giù, accettando il degrado più folle e inumano. Come se fosse normale, accettabile, inevitabile.

Tutto questo mi sta logorando, mi sta consumando dentro. E non posso più incontrare le persone e fare finta di niente: non posso comprare la frutta o il pane da qualcuno che pensa che i porti debbano restare chiusi e le navi delle ong affondate, non posso salutare un vicino di casa che pensa che l’omosessualità sia una malattia, non posso cenare con degli ex colleghi che pensano che sparare a un uomo alle spalle che ha rubato a casa tua sia legittima difesa. Si difende la vita, prima di tutto.

Non posso più, perché l’imparzialità sui valori non può esistere. Perché siamo tutti, per sempre coinvolti e responsabili di ciò che sta accadendo intorno a noi. Perché è il momento di scegliere da che parte stare e ce n’è una che rispetta l’umanità e poi c’è l’altra. Che la maltratta, la violenta, la lascia morire, la uccide.

ps. nella foto, una rosa di Sarajevo

saluti dal mare

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Dopo mesi di post per alcuni criptici, di racconti a voce, di cose non nascoste ma nemmeno sbandierate ai quattro venti, è venuto il momento di dire pubblicamente che lavoro faccio. Nulla di scandaloso, non faccio la pianista in un bordello, né la donna delle pulizie della malavita.

Lavoro in una casa editrice e mi occupo di progetti scolastici. No, non sono la promotrice di testi scolastici che ogni giorno porta nelle scuole manuali di letteratura, geostoria ed educazione fisica per convincere insegnanti annoiati. No, non vendo i libri un tanto al chilo bussando a ogni istituto scolastico.

Incontro insegnanti, librai, bibliotecari, autori e insieme progettiamo percorsi di lettura per ragazze e ragazzi, proponendo temi difficili, spesso faticosi e scomodi: i confini, le migrazioni, il progetto di una casa comune, la parità di genere, la disabilità, l’educazione. Pensiamo e costruiamo occasioni per gli adolescenti per conoscere mondi che non hanno mai guardato, acquisire competenze nuove nella comunicazione, nella capacità di relazionarsi con gli altri, nel gestire il confronto e a volte il conflitto. Diamo agli adulti la possibilità di fare un passo indietro e stare a osservare la magia che nasce quando si lascia il campo libero a chi è più giovane.

Lo dico da qui, da Rimini durante Mare di libri, che faccio questo lavoro. Da una città invasa da ragazze e ragazzi che leggono, ascoltano, parlano, intervistano, ridono, scoprono, scelgono. Lo dico da un appartamento condiviso in 10, di cui solo due siamo maggiorenni (gli altri 8 minorenni sono in un altro appartamento con l’altro maggiorenne del gruppo). Da due bagni condivisi, dai mal di pancia della sera e docce del mattino, dalle ansie per l’intervista che faranno tra poco.

Faccio un lavoro bellissimo, che mi fa leggere tanto, che mi fa incontrare ragazzi, che mi fa stare sempre in ascolto, che mi fa emozionare, che mi fa uscire dalla mia comfort zone. Che mi fa andare “a spiaggia” (come dice la mia collega Sandra) a metà giugno.

le elezioni

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– Quando ero piccolo il giorno delle elezioni era una festa –

Mi ha detto così un amico l’altro giorno in macchina, tra una chiacchiera e l’altra: le figlie a scuola insieme, il suo lavoro incerto, i nostri nonni entrambi comunisti.

Anche per me il giorno delle elezioni era ed è una festa. Perché provo un’emozione speciale ad andare a fare il mio dovere, un rito laico fondamentale per la mia identità. Entro nel seggio e sorrido di più: al vigile nell’atrio della scuola, a chi è in fila davanti a me, a chi lavora al seggio. Sorrido e penso che devo essere felice di poter votare, di esprimere il mio parere. Devo essere consapevole dell’importanza della mia goccia nel mare. Sorrido di più perché nel riconoscermi cittadina vedo una parte della mia dignità personale: non sono solo una mamma, una lavoratrice, una donna, una paziente quando vado in ospedale. Sono un’elettrice, una persona che va al seggio esprimendo un voto per la costruzione del bene comune.

Il giorno delle elezioni è mio nonno che va a votare presto, mia nonna che si fa accompagnare da me in quella che era la mia scuola elementare, mio marito che viene a letto troppo tardi perché aspetta i risultati. È la paura di sbagliare e rendere nullo il mio voto, è la voglia di riconoscersi in un progetto più grande, è una serata nella piazza del municipio a stringere la mano al mio sindaco e a brindare con vino in bicchieri di plastica. È la telefonata con un amico il giorno prima del voto. Perché ultimamente io e lui perdiamo sempre e il lunedì è sempre una giornata troppo difficile per sentirsi. È la bandiera europea che ho comprato e stasera appenderò al balcone.

Allora, buona giornata di elezioni all’amico col nonno comunista come il mio; a Matilde, Ludovica, Lorenzo e ai ragazzi che ho incontrato nelle scuole in queste settimane e che per la prima volta in vita loro voteranno; a chi si candida a Sindaco e alla sua famiglia. A me, che continuo a emozionarmi e a sentire forte quel bisogno di appartenenza che è “avere gli altri dentro di sé”

mi chiamo mi fido

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– Buongiorno Diego –

– Buongiorno Mi fido –

Ieri sera mio figlio piccolo, in vista della manifestazione del primo maggio, mi ha fatto promettere che non mi sarei arrabbiata e non avrei urlato contro nessuno. E quando gli ho detto che l’avrei fatto, lui mi ha risposto “mi fido”. E mi ha inchiodato alle mie responsabilità.

Verso i miei figli. Se non si smette mai di fare l’insegnante, anche quando si è fuori dalla scuola, non si smette mai di essere un genitore. Anche quando i figli non ci vedono, quando sono lontani, girati di spalle. Perché quando vi volterete e mi guarderete io devo sapere, in coscienza, che quello che avreste visto poco prima non vi avrebbe convinto di qualcosa di sbagliato, non vi avrebbe fatto vergognare, non vi avrebbe deluso. Non vuol dire che non sbaglio, non mi arrabbio, non urlo e non commetto errori. Vuol dire che, come chiedo a voi, cerco di fare sempre del mio meglio, di non voltarmi di fronte alle ingiustizie, di amare prima di tutto il confronto e la democrazia, di sostenere i miei valori con intensità, costanza e forza. Anche quando sono in minoranza, anche quando non sono di moda. Vuol dire che, come chiedo a voi, mi assumo le responsabilità delle mie azioni e delle mie debolezze e provo a lavorarci.

Buon primo maggio, ragazzi miei, manifestare con voi mi riempie sempre di orgoglio, speranza e gioia.

del dove e del come (ovvero della fine della rappresentanza)

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Se dovessi dire qual è il danno più grave di questi tempi che viviamo, ciò che sta minando la possibilità di risollevarsi e smetterla di nuotare nella pauta*, oggi direi che è l’incapacità completa di capire dove e come fare e dire le cose.

Non esistono più i luoghi deputati per certe comunicazioni, per alcuni argomenti, per determinate dinamiche: tutto viene riversato, o meglio vomitato, appena si può, ovunque ci si trovi. E di solito il luogo non è quello giusto. Ho tentato in ben due classi dei miei figli di far capire che le comunicazioni date sulla chat di gruppo di whatsapp, con date, scadenze, elenchi puntati non potevano essere lette con la dovuta attenzione proprio per le caratteristiche del mezzo, ma la risposta è stata sempre la stessa: non vediamo il problema.

E io ripenso ai miei corsi universitari, quando parlavamo di significante e significato, di contenitore e contenuto, di adeguatezza del mezzo. Tutte cazzate, esiste solo più il qui e ora, ognuno dice qualsiasi cosa utilizzando qualsiasi strumento, perché ciò che conta è la sua urgenza di esprimersi e chi se ne frega se il processo di comunicazione non va a buon fine, se il destinatario non capisce o capisce altro. È un problema suo.

Ma la cosa più grave è che in questo parlare sempre e ovunque, perdiamo il senso della rappresentanza. Perché se basta un accesso a un social qualsiasi per dire ogni cosa ed esprimere un’opinione su ogni argomento (perché ricordiamoci che uno vale uno, è la democrazia della rete), allora non servono più elezioni e organi di rappresentanza perché non rappresentano più nulla e non è lì, in quei luoghi fisici, che verranno prese le decisioni e portate avanti le linee di condotta di una scuola, di un’azienda, di una città o di una nazione. È roba vecchia, ormai le decisioni si prendono sulla chat di classe, nel cortile della scuola o in panetteria, su Twitter, sulla poltrona della D’Urso o di Fazio.

E chi pensa che la democrazia sia capire che dobbiamo saper delegare ad altri, liberamente scelti e democraticamente eletti, parte delle decisioni che ci riguardano è paragonabile all’homo heidelbergensis, gigante intelligente vissuto tra 600 mila e 100 mila anni fa ed estinto senza lasciare discendenza.

* servizio di traduzione per i non sabaudi: dicesi pauta la fanghiglia, la melma che ingloba le scarpe se ci metti un piede per errore, che rende difficile ogni movimento, che dovrebbe essere solo acqua e terra, ma in effetti puzza un po’ di cacca

per me il solito

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Siamo esattamente al 50% del fine settimana, che a casa nostra è un modo diverso per dire “tetris”.

Perché in questa 48 ore che spezza la routine, siamo soliti incastrare una miriade di impegni, principalmente dei figli. E visto che abbiamo avuto la sfacciataggine di farne tre, gli incastri sono particolarmente ambiziosi.

Chiunque conosca me e l’altra metà della mela, sa che non facciamo, né abbiamo mai fatto parte della categoria “sportivi”. Eppure gli impegni più frequenti il sabato e la domenica sono quelli agonistici dei ragazzi, tra una gara di marcia e una partita di basket, ovviamente in due posti diversi del Piemonte. E anche se questo vuol dire pranzi trangugiati, nessun pisolino sul divano, due ore al freddo su spalti di cemento o in un palazzetto maleodorante, io continuo a pensare che questo sia un bel modo di passare il mio fine settimana.

Perché il mio posto è sulle gradinate a incitare Luci all’ultimo giro di pista, quando le altre hanno già finito la gara, e vederla avanzare dritta metro dopo metro verso il traguardo. È lì che voglio stare, di fianco alla sua strada, pronta ad accogliere le sue lacrime e il suo sforzo, il suo impegno e la sua perseveranza.

Il mio posto è nel palazzetto del basket, a festeggiare ogni canestro di quei ragazzi che sono la squadra di mio figlio, a osservare ogni passaggio di Jacopo, a intercettare i suoi sguardi prima che si arrabbi con l’arbitro.

Il mio posto è su una panchina della piscina, a guardare i progressi in corsia di Diego o in una palestra di scuola a riprendere col telefonino il suo esordio in un’amichevole di un gioco che un giorno diventerà il basket, ma oggi è un mix tra bowling e rugby.

Il mio posto è lì, dove loro si impegnano, dove crescono con gli altri, dove imparano a sfidare i loro limiti, dove sentono la soddisfazione e la delusione, la gioia e la fatica. Dove si impegnano in un gioco serio, come sono tutti i giochi degni di essere giocati.

Cosa prendo per il prossimo fine settimana? Per me il solito, grazie. Un bel po’ di sport, con i miei ragazzi.

l’indennità badante

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Ci sono persone che hanno sempre bisogno di un supporto. Non in quelle cose su cui non sono competenti, non hanno le capacità o il talento. Non su imprese titaniche più grandi di loro. Chiedono aiuto costantemente per le piccole cose quotidiane. A che ora è la riunione di scuola? A quella segnalata sulla circolare, pubblicata un mese fa. E dov’è? Come tutte le riunioni da un anno a questa parte si svolge nella sede. Ma il 23 e il 24 aprile la scuola elementare è aperta o c’è il ponte? A parte che sarebbe più lungo dell’attraversamento della Manica, in ogni caso il calendario di aperture e chiusure della scuola è sulla prima pagina del diario di tuo figlio, quello che dovresti aprire e firmare ogni sera. E te l’abbiamo già detto che il calendario è sul diario: l’8 dicembre, a Natale, nelle vacanze di carnevale e a Pasqua. Potresti essere in grado di ricordarlo. Puoi aggiornare il database degli inviti alla conferenza stampa ricopiando i biglietti da visita della mia agenda? Poi magari mi chiedi se trovi inserimenti nuovi da fare.

Ci sono persone che necessitano sempre di un aiuto, una sintesi, un “recap” (come si dice nello slang professionale). Insomma di una badante. E persone che meriterebbero, a fine mese, direttamente accreditato sul proprio conto, una “indennità badante “.

Adesso preparo un recap delle mie indennità per il mese di aprile.