non vi fidate

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Ehi ragazzi, poco meno di un mese fa, vi dicevo che dovevate avere fiducia. Non so se mi abbiate ascoltato, forse non mi avete neanche letto. Io mi sono ascoltata, questo posso garantirvelo.

Ho coltivato la speranza ogni giorno, ho cercato di osservare ogni norma con scrupolo e coscienza, ho costruito in ogni momento il dopo domani, cercando di non farmi travolgere. Mi hanno chiesto di aspettare, mi hanno detto che le regole del gioco erano queste e io ho giocato. Ho seguito con attenzione e cura la vostra didattica a distanza, ho organizzato le stanze della casa perché ciascuno potesse fare l’attività online che aveva quel pomeriggio, ho fatto allenamenti di basket il sabato pomeriggio anche quando sarei voluta sprofondare sul divano.

Ho nutrito voi, nei pranzi condivisi quando sono in smart working, il vostro ottimismo e i nonni a turno, perché prenderci cura di loro è il nostro compito, mio e di papà. Non ho più visto un amico o un’amica, non ho abbracciato chi ha perso una mamma o una nonna, non ho dato spazio alla mia stanchezza enorme. Ho respirato, sorriso e smesso di mettere il rossetto, tutto sotto la mascherina.

Perché era il momento del sacrificio, dell’unità, della salita al colle insieme. Perché il gioco prevede fasi diverse e dopo quella più dura, quella rossa, avremmo visto dei risultati e avremmo potuto recuperare qualcosa del prima. Non gli amici, i pranzi fuori coi colleghi, il Natale coi nonni e la famiglia numerosa che abbiamo, gli abbracci, le vacanze in montagna in mezzo alla neve.

Ma almeno in parte la vostra scuola, le lezioni in aula, i compagni con cui entrare e uscire da quella che è la vostra casa. Perché papà e io vi insegniamo da quando avete un anno che il mondo è là fuori, dove potete condividere pensieri e azioni con gli altri, progetti, delusioni, vittorie. Con altri che non siamo noi, con chi vi accompagna e vi sostiene.

Abbiamo giocato e adesso ci cambiano le regole del gioco, ci spostano la meta, ci dicono che in fondo voi potete aspettare ancora e ancora. Non sanno cosa ci stanno togliendo: a voi il protagonismo dei vostri 13 e 16 anni. Non vi vedono chiusi in casa, spenti o su di giri, stanchi di guardare uno schermo dove tutto diventa uguale, la lezione come l’allenamento come l’attività scout come la festa dell’amico. A noi stanno togliendo gli strumenti per farvi crescere, per stimolarvi, per spronarvi a fare sempre del vostro meglio.

Vi avevo chiesto di avere fiducia, ma non ne ho più neanche io. Perché per avere fiducia bisogna avere di fronte qualcuno che merita rispetto e che rispetti noi come persone. Non ho fiducia in chi ha tradito le regole del gioco che ci ha chiesto di giocare. Non ho fiducia in chi vi mette al fondo delle priorità. Non ho fiducia in chi dice che siete voi a contagiare i nonni e gli anziani che stanno morendo. Non siete voi che non avete preparato gli ospedali per curarli e i medici sul territorio per farli restare a casa e con un’assistenza dignitosa. Non siete voi che non avete organizzato la logistica dei trasporti e di un sistema che rendesse possibile andare a lavorare e a scuola in sicurezza. Non siete voi che non state fermando il contagio attraverso un sistema di tracciamento efficiente e tempestivo.

Sono loro, quelli che cambiano le regole in corsa, che truccano i dati e vi rubano il presente e compromettono il vostro futuro.

Non vi fidate di loro, disobbedite.

le cose che mi tengono a galla

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Oggi è un mese esatto che non esco da casa (sì, perché andare a comprare il latte, la verdura, ritirare la spesa con Coop drive, portare Jacopo dal dentista non lo considero uscire). È un mese in cui tutti i 30 giorni sono stati segnati sul mio calendario interno, uno dopo l’altro, cercando di costruire routine, alimentare progettualità, ricacciare indietro sconforto, noia, fatica.

Dieci cose mi hanno tenuto a galla.

I miei ragazzi, impegnativi e presenti. I loro bisogni da ascoltare, le loro cadute, i loro guizzi di generosità e altruismo. La loro vita che prosegue e di cui insieme dobbiamo continuare a progettare la strada.

Il lavoro che faccio, che mi incita a mettermi sempre in cammino e al servizio. Inventarsi modi nuovi per farlo, incontrare insegnanti e studenti, vedere la casa dei nostri autori è il modo che preferisco per sentirmi viva e vigile.

La cucina, croce e delizia di questa quarantena. Quando tutto questo sarà finito chiuderò i fornelli per qualche mese e vivremo di cibo da asporto. Ma cucinare è trasformare, far evolvere, dare forme diverse a ciò che si ha di fronte (e in tutto questo c’è qualcosa di catartico per me).

La scuola e gli insegnanti dei miei figli, che osservo dalle retrovie, sentendo lezioni della professoressa di italiano attraverso il muro che separa la camera dal salotto o guardando i compiti dati (e sempre corretti) dalle maestre. Sapevo già prima che eravamo stati fortunati, ma adesso ho proprio la voglia di abbracciarli e magari commuovermi un po’ con loro. Per quanto sono cresciuti in mezzo a questa tempesta i nostri ragazzi e ragazze, quanto abbiamo remato insieme perché la loro canoa superasse le rapide intera.

I libri, che non riesco a leggere con la concentrazione e la leggerezza che ho d’estate, quando le pagine scorrono una dietro l’altra. Ma loro sono sempre lì, con le loro parole per me, che mi curano e mi portano fuori dal qui e dall’ora.

La musica e la sdraio in balcone, in cui mi rifugio alla ricerca di solitudine. Perché sembra assurdo ma mi manca tanto il restare da sola, senza nessuno intorno. Rimpiango addirittura il viaggio quotidiano in tram per andare e tornare da lavoro.

La mia famiglia allargata, una rete che ha saputo stringere le maglie per non far scivolare nessuno fuori. Che ha messo insieme risorse, scambiato cibo e acquisti, consegnato a domicilio libri, verdura, semi e terra. E portato in ogni occasione vicinanza. Più di quella che dimostro normalmente.

Gli amici, quelli di sempre, quelli che già c’erano. Quelli che ti chiamavano prima, ti invitavano a cena prima, ti pensavano prima. Ci sentiamo più spesso, più spesso condividiamo foto di cose normali, vocali lunghissimi, chiamate, pensieri. Non mi sento sola in questo momento perché so che in tante case c’è lo stesso ottimismo della volontà che ci farà ricostruire un tessuto civile degno di questo nome.

Il sole, che se fosse stato un marzo piovoso avrei abbattuto i muri a testate e adesso vivremmo in un openspace. Il cielo azzurro di queste mattine non solo mi mette in pace, ma fa bene alle mie piante e al mio colorito. Così magari uscirò dall’isolamento con un’aria vagamente sana.

Il mio compagno di viaggio per eccellenza, che accoglie i miei momenti di sconforto e si lascia spronare dalla mia energia, quando a essere sconfortato è lui. So che non sono mai sola, che ogni prova la affrontiamo insieme e questo mi da una tranquillità incredibile. Ne usciremo comunque, sempre in due.

10 anni ai tempi del Coronavirus

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Il compleanno in quarantena è fatto di piccole bellissime cose.

Cose buone da mangiare, racimolate un po’ a fatica (la pasta cercata apposta nel negozio leggero, la torta fatta dalla nonna perché il robot da cucina si è rotto, la carne da fare impanata che la nonna aveva provvidenzialmente in congelatore (poi un giorno farò un post sulla capacità magica del frigo di mia madre di contenere sempre quello che serve).

Tutte le persone importanti della vita radunate insieme in due video chiamate: una coi 6 nonni, che si rivedono tutti dopo 1 mese di lontananza e parlano fra loro più che col nipote, ma il bello è proprio avergli dato l’occasione di vedersi tutti e sei. L’altra con gli amici speciali, gli zii e i cugini, persone che magari non si conoscono tutte, ma tutte hanno in comune il festeggiato e l’amore speciale per lui.

Dei regali inaspettati, spediti da amici lontani, un sacchetto da 2 kg di pasta, le foto e le lettere che raccontano quanto amore ci sia in queste stanze da cui non possiamo uscire, neanche nel giorno del tuo decimo compleanno Diego.

Se qualcosa stiamo imparando in queste giornate lente e sospese è che le cose che contano veramente non sono tante e dobbiamo curarle e coltivarle ogni giorno. Perché senza di loro, i nonni, gli zii, i cugini, gli amici, i compagni, i fratelli, la famiglia non saremmo noi, non saremmo felici.

Buon compleanno ragazzo, mi insegni sempre moltissimo.

categoria “madre rompipalle”

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Nella categoria dei genitori io mi inserisco, senza ombra di dubbio, in quella di “madre rompipalle”. Posso dire con una certa sicurezza che sono nella top ten delle madri asfissianti.

Perché raramente mi lascio scappare un’occasione per pungolare i miei figli e spingerli a chiedere un po’ di più a loro stessi. È come se ci fosse una continua domanda sospesa, spesso neanche tanto implicita: hai fatto tutto quello che potevi? hai fatto del tuo meglio? non ti sei risparmiato neanche un po’? Quando rispondono a queste domande per me la discussione, di qualsiasi genere sia, è chiusa e cerco di avere in loro una fiducia piena. Perché funziona così il nostro rapporto: la cosa più grave che possiamo fare uno nei confronti dell’altro non è sbagliare o trattarci male, ma dirci una bugia. E la regola vale sia per noi adulti che per loro, non ci sono sconti.

Sono una madre rompipalle, incredibilmente rompipalle. Una che concede poco e chiede tanto, che non si accontenta mai e che non sembra mai contenta. Una che per ogni pacca sulla spalla dà almeno due calcetti sul sedere per invitare a ricominciare a camminare. I miei figli hanno imparato presto il detto “chi si loda si imbroda”, quando ancora non sapevano cosa volesse dire. Una che per alzare l’asticella ogni volta di più va sempre in giro con la scala.

Sono questa e sicuramente sono scomoda. Ma quando vedo l’impegno e la passione con cui si buttano nelle imprese i miei ragazzi, quando sento la loro fatica e il loro lavorare a testa bassa, mi sento soddisfatta. E felice. Quando Jacopo mi dice che “gli dispiace dire di no a qualcuno che gli ha chiesto di fare una cosa”, quando Lucia viene coinvolta nelle discussioni in classe per cercare di creare le migliori condizioni per un dialogo, quando Diego si destreggia sereno tra impegni a scuola, scout, sport e altre passioni, penso che stanno crescendo bene. Sereni e solidi, aperti al mondo e rigorosi, appassionati e con amor proprio. Ci sono tante differenze tra loro tre, ognuno ha un suo modo di affrontare le cose e vivere le diverse situazioni. Ma c’è uno strato comune da cui ciascuno parte per la sua strada, fatto di affidabilità, serietà, curiosità, testardaggine, voglia di esprimersi e di ascoltare gli altri, ottimismo. Un’inquietudine positiva che li rende permeabili e capaci di farsi attraversare dalle esperienze in maniera attiva.

Sono una madre rompipalle, che li inonda di mille stimoli e proposte. Sposata con il loro padre rompipalle, che chiede molto. Ma poi vedo quale meraviglioso capitale umano abbiamo di fronte e dico che stiamo facendo solo quello che siamo chiamati a fare: aiutarli a diventare il meglio di ciò che vogliono essere.

È un fantastico lavoro, ed è toccato a noi.

crescere piccoli comunisti

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Qualche giorno fa, nel cortile interno comune tra la casa dei nonni e casa nostra; buio intorno, sono le 19. Torniamo a casa Diego e io e ci raccontiamo la giornata.

– Oggi abbiamo mangiato le caramelle a scuola –

– Come mai? –

– Le ha portate il mio compagno E. perché il 25 aprile è il suo compleanno –

– … sei sicuro? –

– Ah no, mi sono sbagliato: è il 25 dicembre il suo compleanno. Vabbè anche il 25 aprile è una data importante –

– Certo amore, è un giorno importante anche il 25 aprile –

– Anzi, secondo me è anche più importante: ci hanno liberato dai nazisti e poi c’erano i bombardamenti prima. Il 25 dicembre è nato un bambino –

Non mi si vede, ma se ci fosse un po’ di luce potreste notare gli angoli della bocca sollevati e gli occhi che sorridono. Stiamo crescendo un piccolo comunista.

– Non sei d’accordo con me mamma? –

– Si Diego, ma magari non dirlo a catechismo –

tutti dicono voilà

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Oggi ho fatto una gita di lavoro. Ho preso il treno presto. Ho visto scorrere dietro al finestrino la periferia, poi la tangenziale, poi la campagna. Ho visto un po’ di neve per terra e già ero contenta. Poi i campi sono diventati completamente bianchi e io avevo una gioia dentro di quelle che hanno i bambini o i cani, esseri semplici ed entusiasti per istinto.

Ho ascoltato parole sulla dignità e sulla decenza, che sono caratteristiche comuni, non segni distintivi di caratteri speciali e straordinari. Ho sentito dire che “eroe” è una parola bugiarda perché ci pone in un ruolo di spettatori, ci dà un alibi. E in testa sento le parole di Italo Calvino “l’eroismo non è sovrumano” della canzone Oltre il ponte.

Quella canzone, in questa città. Cuneo, città medaglia d’oro per la Resistenza, con le piazze intitolate ai partigiani, con le lapidi sui palazzi. Con una mostra di pannelli sotto i portici dedicati a Nuto Revelli. L’anello forte, quello di nonno, è sul mio comodino da parecchi mesi. L’ho già letto, ma forse non lo tolgo per tenermelo vicino sempre, nei sogni a occhi aperti e in quelli a occhi chiusi.

Ho sentito parlare di confini, ponti e muri in Europa. E non c’è posto migliore di questo per fare discorsi del genere. Questa terra che è franco-piemontese, con i portici, i palazzi eleganti e le piazze d’armi. Con un ponte che ti conduce alle porte della città, le montagne intorno. Con il mercato coperto che sembra Luserna San Giovanni o Mentone. È uguale: le radici, nel profondo, sono le stesse. Con un dialetto che ha il suono della mia infanzia e le persone che dicono “voilà”.

inseguimenti

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Credo sia colpa dell’età. Di questi anni troppo pieni: di competenza, di relazioni, di ruoli, di responsabilità, di talenti scoperti, di progetti, di sete di sogni collettivi.

È colpa di questa età così piena di possibilità se passo ogni secondo della mia esistenza all’inseguimento. Delle idee che mi vengono, dei progetti in cui mi tuffo con testa, mani, pancia, cuore, gambe. Delle relazioni in cui non mi basta mai un livello superficiale, devo sempre essere attenta, empatica, sincera, profonda. Della vita quotidiana che voglio portare avanti in un certo modo, con cene cucinate, verdura a tavola, biancheria piegata, piante rigogliose in balcone. Della fame che il mio cervello ha di stimoli, siano musica, teatro, mostre, libri (qui apriamo una parentesi: non riuscire a leggere quanto vorrei, essere così stanca da non trovare mai il tempo per concentrarmi su nuove storie è una sofferenza fisica). Della crescita dei miei figli, con i loro impegni, i loro cambiamenti, le loro domande, la loro vita in cui continuano a chiamarmi dentro, in cui io voglio continuare a stare.

È colpa dell’età così ricca di voglia di cambiare il mondo se corro tutto il giorno su un tapis roulant senza mai arrivare a conquistare tutti i traguardi. Sarà colpa di quello che ho imparato quando ero più giovane “quando guardate, guardate lontano, e anche quando credete di star guardando lontano, guardate ancor più lontano“.

Perché, anche se l’inseguimento a volte è faticoso, quello che dà gioia non è il traguardo, ma il percorso. Non è la vetta, ma la strada.

suggerimenti

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Autobus, lunedì mattina. Pioggia fuori. E già che non ci sia dentro è qualcosa che ho imparato a non dare per scontato.

Il 63 passa davanti a scuola del figlio piccolo e anche se è più lento lo prendo volentieri, perché di solito mi siedo e riesco a leggere. Passa davanti a varie scuole e tra case popolari, dove molte sono le donne velate che salgono con i bambini piccoli, dopo aver lasciato fratelli e sorelle maggiori a scuola.

Sale un uomo, tra i 45 e i 50 anni, sbraitando e urlando che il problema delle ragazze è che fanno troppi figli.

– Vi riproducete troppo, siamo 9 miliardi sul pianeta, sta scoppiando – le ragazze velate che salgono coi passeggini dopo di lui rispondono e un’altra nera alza la voce, mentre l’uomo continua ad argomentare.

– Non è una questione di razzismo, bianchi, neri, gialli: siamo troppi, bisogna smetterla di fare figli. Perché il figlio suo non è solo suo, è figlio del mondo –

Gli altri passeggeri ridacchiano di spalle, aggiungono mezze frasi “meno male che lui non si è riprodotto”.

– Certo, io non ho figli perché non saprei fare il padre, non come tutti quelli che fanno figli e poi non li sanno educare –

Devo dire la mia, perché è evidente che il suo problema è il genere umano per intero, ma non è un caso che se la sia presa con due ragazze musulmane.

– Se ce l’ha col mondo scenda dal pullman e la smetta – le ragazze adesso ridono tra loro e scambiano sguardi divertiti con i passeggeri intorno; mi guardano sorridendo, ci parliamo a distanza.

– Non ce l’ho col mondo, è il mondo che è troppo pieno. Sta scoppiando. Non si può scopare e fare figli come conigli –

Intervengono due ragazze, spiccato accento del sud Italia.

– Allora la prima che ha sbagliato a riprodursi è stata sua madre –

– Certo che ha sbagliato, se non ero nato mica morivo dal dispiacere. Tu devi studiare: vai a studiare come non rimanere incinta –

Così: per 25 minuti di viaggio, tra l’incredulità generale e discriminazioni sparse. Di religione, colore della pelle e, ovviamente, sesso. E tra la solidarietà femminile, che dei matti misogini sui pullman se ne infischia.

Grazie gtt per la commedia umana itinerante, ho iniziato la settimana col sorriso.

cosa intendiamo quando parliamo di educazione

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L’educazione ha a che fare con alcune parole: attesa, rischio, bellezza, fiducia, presenza.

Attesa dei tempi in cui i semi germoglieranno. Non c’è un acceleratore che ci permette di aver subito il risultato. Non c’è una palla di vetro che ci rassicura che quel risultato arriverà. C’è solo il tempo che deve passare, un minuto per volta. E noi, che dobbiamo continuare a innaffiare perché sotto la terra si sviluppi la vita.

Rischio di credere nel senso del nostro impegno, ma anche nel decidere di assumere una posizione. Dire sì e no. Vuol dire esporsi alle critiche, agli errori, alla necessità di tornare indietro e ammettere lo sbaglio. Vuol dire immergersi nella partita e provarci, smettere i panni di arbitro ed entrare in squadra.

Bellezza da riconoscere e far riconoscere. Quella da vedere negli altri e nelle cose ben fatte, nei lavori curati, nelle relazioni profonde, nei progetti portati a termine. Quella da coltivare dentro di sé, nella dignità della propria coscienza, nella consapevolezza dei propri limiti, nella capacità di vedere nel mondo occasioni di crescita e ricchezza.

Fiducia che i giorni futuri siano tempi di evoluzione, non di involuzione. Che ciò che progredirà non saranno solo le possibilità di ciascuno di noi, ma la nostra umanità, la capacità di stare insieme e avere sogni collettivi.

Presenza, perché bisogna essere lì, insieme nello stesso spazio. Non esiste l’educazione a distanza, esiste il qui e ora, perché educare significa cogliere tutte le occasioni per parlare, riflettere, incontrarsi e scontrarsi. Per aiutarsi reciprocamente a capire chi siamo e chi vogliamo essere.

L’educazione ha a che fare con la vita, dura per sempre e riempie ogni spazio e ogni momento. Non ci sono pause o stand by, come non si può mai smettere di respirare.

come mi sento io qui

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– Perché ti piace così tanto la Francia? – mi ha chiesto Diego l’altro giorno a Bastia.

– Mi piace la lingua, ho degli amici francesi a cui voglio molto bene, ho dei bei ricordi… non saprei… –

Non ho una risposta precisa. La Francia è il posto delle gite coi nonni quando eravamo a Sanremo o con mamma e papà quando eravamo in montagna. Facevamo pochi chilometri e cambiavano le cose: le autostrade erano indicate col blu e le statali in verde, le R diventavano più importanti in ogni parola, le banconote dei franchi sembravano dei lenzuoli e non ci stavano nel portafoglio. Alla frontiera ti facevano segno di passare senza neanche uscire dal gabbiotto perché quelli erano posti di transito. Non era proprio come essere a casa, ma non era neanche così diverso. Era come una gita fuori porta, in un posto che comunque apparteneva a un torinese, con una lingua con molte somiglianze rispetto al dialetto piemontese che parlavano tra loro i nonni.

La Francia sono tante vacanze fatte con gli amici di sempre, roulotte e tende montate in campeggi in riva al lago, nel paese di montagna, al mare o nell’area parcheggio a Sainte Marie de la Mer, con i tori che ci passavano tutt’intorno. Sono cartoline scritte sul tavolo del campeggio, piscine comunali, ristoranti in cui scoprire le rane, fiumi in cui nuotare, zanzare e partite a carte. Sono gli anni in cui qualcuno ha seminato dentro di me la curiosità per i posti nuovi, i cibi diversi, le domande che nascono se si apre la porta di casa e si esce sulla strada. Sono gli anni in cui sei adulti mi hanno regalato una famiglia allargata, un’amica per la vita, la consapevolezza che stare insieme richiede pazienza e capacità di adattarsi. Ma è ciò che ci rende felici.

La Francia è una casa al centro del mondo. Dalle finestre vedevi campi arati, mucche, l’aia con galline e biciclette vecchie, stalle e stagni. Nella cucina c’era posto per tutto: italiani, francesi, bambini di età diverse, allevatori, adolescenti parigine, figli naturali e figli in affido. C’era posto per crescere e scoprire se stessi, per farsi insieme delle domande, per trovare risposte che generavano sempre nuove domande.

La Francia è tutto questo. Non è casa, ma un posto in cui so di poter stare come se fossi a casa. Ha una lingua diversa, un cibo diverso, un modo di salutarsi diverso e addirittura un modo di usare la punteggiatura diverso. Ma qui, come a casa, mi sento libera di essere me stessa, di sentirmi parte di una umanità aperta, curiosa, consapevole che ogni incontro ci trasforma e ci fa evolvere. Cittadina di un territorio che non può venire realmente separato attraverso dei confini. Quelli stanno solo sulla carta politica appesa nella mia classe delle elementari. Sul mare e in terra non esistono: esistono solo le persone e il loro diritto di spostarsi.