trova le differenze

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C’è la mamma che si preoccupa. Fa mille raccomandazioni, verifiche e controlli su ciò che devono fare gli altri affinché la sua progenie arrivi sana e salva alla destinazione che ha in mente: la scuola media a due isolati da casa, il centro sportivo a due pullman di distanza, il supermercato di quartiere. Vive vedendo pericoli a ogni angolo, drammi in agguato e ovviamente complotti alle spalle del proprio cucciolo.

La mamma che si preoccupa prenota i libri scolastici prima ancora che il bambino o ragazzo in questione vada a scuola, chiede nella chat di classe l’elenco del materiale per l’anno nuovo il primo giorno di vacanza, fa un breve sondaggio per sapere chi parteciperà allo sciopero del giorno dopo in seconda superiore, conosce alla perfezione le previsioni del tempo in occasione di qualsiasi gita o uscita scolastica, in pieno lockdown vorrebbe entrare a scuola per recuperare il sacchetto igienico in modo da poter lavare tutto il lavabile (forse anche le copertine di plastica dei quaderni).

La mamma che si preoccupa fa video chiamate continue coi pargoli dall’ufficio, piomba di fianco alle scrivanie dei colleghi brandendo un cellulare da cui escono le urla di un minore che non ha ancora capito che ci sono i momenti giusti e quelli sbagliati per salutare le colleghe delle mamma e che si può usare un tono di voce normale e non sempre da gallina strozzata o da cartone animato. Tu stai scrivendo il progetto della vita e lei entra nella stanza col viva voce attivo, viene di fianco a te (che continui a tenere lo sguardo fisso sul computer, fingendoti imbalsamata) e ti piazza il telefono davanti al naso perché “la mia bambina vuole tanto tanto salutarti”. La mamma che si preoccupa quando può scegliere se usare 10 o 100 parole per rispondere alla domanda “come va la scuola di XY?” quasi sicuramente deciderà di usarne 110, per farti un quadro completo della situazione.

La mamma che si preoccupa è molto concentrata sulla sua missione di vita: evitare qualsiasi trauma alla creatura. Banditi i giochi competitivi, bandito ogni scontro verbale più o meno acceso, bandita ogni opinione diversa. Chiunque si interponga tra la creatura e la sua libera volontà si sentirà un pippone galattico di quanto ogni nota, sgridata, correzione, disappunto mini l’equilibrio psicofisico della creatura stessa, la costruzione della sua autostima e la realizzazione di un futuro radioso. Che questo voglia dire non avere consapevolezza dei propri limiti non è qualcosa che impensierisce la mamma che si preoccupa: il limite è solo uno stato mentale.

La mamma che si preoccupa fa tutte queste cose e qualcuna in più. Salvo poi arrivare costantemente in ritardo a prendere i figli a qualsiasi attività, farli arrivare il giorno sbagliato alle prove generali del concerto, del saggio o di qualsiasi cosa (e dire che non li hanno avvisati per tempo), imbarazzarli davanti agli amici (come quando mia nonna prendeva dalla borsa il fazzoletto e mi diceva “vieni qui che ti pulisco il muso” dopo che avevo mangiato il gelato).

La mamma che si occupa punzecchia i figli perché trovino informazioni sui treni e sui percorsi per andare in montagna con gli amici (più piccoli di lui e di cui sarà responsabile), ascolta la logistica organizzata dal 16enne e da dei consigli, passa molto tempo a confrontarsi e poco a fare. Non controlla, ma resta lì, nel caso servisse ancora un consiglio. La mamma che si occupa fa il percorso in pullman fino al centro sportivo con la figlia, osserva insieme le strade, i negozi, i punti di riferimento; fa scaricare l’app e insegna a usarla e poi ha il telefono vicino quando per la prima volta la 13enne in questione prenderà il pullman da sola per tornare a casa della nonna: non chiama, ma resta lì, nel caso servisse un incoraggiamento.

La mamma che si occupa non sa cosa stiano facendo i figli nel programma di tecnologia o di italiano e neanche se nella prossima settimana ci saranno tre interrogazioni e due compiti in classe. Ma a cena i racconti delle giornate di tutti i membri della famiglia si sovrappongono e spesso vengono fuori le cose più importanti della scuola: la discussione col compagno o con l’insegnante, la lezione molto interessante o noiosa, i progetti nuovi e le normali paure.

La mamma che si occupa a volte chiama i figli durante il giorno e a volte no, perché si fa prendere dal lavoro e dalle cose da fare, perché a pranzo esce coi colleghi e chiacchiera con loro, perché pensa che poi comunque ci rivedremo a casa tra poco. A volte chiama e chiede come è andata la mattinata, risponde quasi sempre ai loro messaggi e alle chiamate: a volte sono stupidaggini, altre volte cose più importanti. Le video chiamate non fanno parte delle sue abitudini quotidiane e il viva voce è un tasto sconosciuto.

La mamma che si occupa racconta che il confronto tra persone con opinioni diverse a volte può essere acceso, ma non deve mai prescindere dal rispetto e dalla correttezza verso l’altro. La critica è la benvenuta in ogni discussione, a patto che sia per costruire e non per demolire e che si usi lo stesso rigore nell’osservare se stessi e gli altri. La mamma che si occupa stimola la competizione verso se stessi, insegna che i limiti esistono e ci si deve arrivare molto vicino per conoscerli e imparare a superarli, quando si può. In qualche caso bisogna accettarli e usare tutta la propria forza di volontà e intelligenza per trovare soluzioni alternative.

La mamma che si occupa lascia autonomia e usa la maggior parte del suo tempo per fornire gli strumenti per camminare da soli e avventurarsi fuori dal recinto, non per controllare o chiudere il cancello. Resta sulla stessa strada e osserva il viaggio, intervenendo solo se veramente necessario o se richiesto. Si affida ai figli (e un po’ anche alla fortuna) e alla loro capacità di imparare dagli errori e rialzarsi da soli. Vive e lascia vivere, con tutti i rischi che questo comporta. Con tutta la bellezza che questo comporta.

perché a 16 anni

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C’è una canzone che mi ricorda i miei 16 anni, una di quelle che nella mia autoradio mentale mi sono cantata tante volte nella testa. E continuo a cantarla, perché la sento ancora vera per me e perché sono in fondo un po’ nostalgica. Oggi la canto pensando a te.

La canzone si intitola Eskimo ed è di Guccini. La strofa che oggi mi sembra perfetta per te è verso la fine e dice “perché a 20 anni è tutto ancora intero, perché a 20 anni è tutto o chi lo sa”. Tu di anni ne hai (solo) 16 oggi, ma sei stato uno che ha deciso di anticipare i tempi da subito. E il tuo mondo è tutto intero, tutto pieno di possibilità, di rischi da assumersi, di sfide da compiere. Sei nell’età in cui puoi essere ogni cosa tu voglia perché hai le capacità intellettive, le energie fisiche, le competenze progettuali per realizzare ogni sogno passi nella tua testa. E questa prateria sconfinata di possibilità ti rende mutevole, allegro, preoccupato, capace di voli pindarici e di passetti piccoli ma inesorabili per arrivare alla meta, rivoluzionario. Ti rende un meraviglioso adolescente che si appassiona, si impegna, si dimentica, si ferma o corre. Tutto nella stessa (mezza) giornata. Quando riesco ad avere lo sguardo sufficientemente largo per non restare agganciata al tuo computer lasciato sul tavolo, ai vestiti buttati a caso, al latte che l’altro ieri dovevi comprare tu e invece ho comprato io, vedo che non so ancora cosa sarai tra 10 anni, ma sono certa che sarà qualcosa di cui poter andare orgogliosi, tu e noi.

Ma la canzone è perfetta anche per come prosegue “A 20 anni si è stupidi davvero, quante balle si hanno in testa a quell’età”. Si, sei stupido davvero. Quello è proprio un talento naturale, che coltivi con costanza. Quando tua sorella mi chiede perché sei così scemo, le rispondo che ti abbiamo voluto bello e non si può aver tutto.

Buon compleanno figlio, bello e stupido. Come solo a 16 anni ci si può permettere di essere.

cosa intendiamo quando parliamo di educazione

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L’educazione ha a che fare con alcune parole: attesa, rischio, bellezza, fiducia, presenza.

Attesa dei tempi in cui i semi germoglieranno. Non c’è un acceleratore che ci permette di aver subito il risultato. Non c’è una palla di vetro che ci rassicura che quel risultato arriverà. C’è solo il tempo che deve passare, un minuto per volta. E noi, che dobbiamo continuare a innaffiare perché sotto la terra si sviluppi la vita.

Rischio di credere nel senso del nostro impegno, ma anche nel decidere di assumere una posizione. Dire sì e no. Vuol dire esporsi alle critiche, agli errori, alla necessità di tornare indietro e ammettere lo sbaglio. Vuol dire immergersi nella partita e provarci, smettere i panni di arbitro ed entrare in squadra.

Bellezza da riconoscere e far riconoscere. Quella da vedere negli altri e nelle cose ben fatte, nei lavori curati, nelle relazioni profonde, nei progetti portati a termine. Quella da coltivare dentro di sé, nella dignità della propria coscienza, nella consapevolezza dei propri limiti, nella capacità di vedere nel mondo occasioni di crescita e ricchezza.

Fiducia che i giorni futuri siano tempi di evoluzione, non di involuzione. Che ciò che progredirà non saranno solo le possibilità di ciascuno di noi, ma la nostra umanità, la capacità di stare insieme e avere sogni collettivi.

Presenza, perché bisogna essere lì, insieme nello stesso spazio. Non esiste l’educazione a distanza, esiste il qui e ora, perché educare significa cogliere tutte le occasioni per parlare, riflettere, incontrarsi e scontrarsi. Per aiutarsi reciprocamente a capire chi siamo e chi vogliamo essere.

L’educazione ha a che fare con la vita, dura per sempre e riempie ogni spazio e ogni momento. Non ci sono pause o stand by, come non si può mai smettere di respirare.

mamma feroce

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Una volta, due ere lavorative fa, ero Serpenella. L’appellativo l’aveva trovato una copy e in effetti me lo sentivo bello comodo addosso, come la pelle di un serpente. La fortuna di lavorare in ambiente creativo è che le cattiverie (quelle che, più che un fondo di realtà, hanno una pentolata colma di identità) sono originali e perfettamente capaci di far sintesi delle nostre caratteristiche, anche di quelle che a volte non ammettiamo a noi stessi. Nel mio caso, non ammettere la lingua veloce e il pensiero non sempre da madreteresadicalcutta sarebbe stato come combattere contro i mulini a vento.

Lavorando in una casa editrice ho scoperto che c’è una professione, invisibile ai più, che sulla correttezza delle parole perde le sue ore di veglia e forse pure quelle di sonno: è la figura dell’editor, sarto che sistema, taglia, stringe, tira e ricuce le parole scritte da altri perché diventino una pelle di serpente su una storia. Dove lavoro c’è un’editor meravigliosa, che a questa competenza professionale aggiunge l’asciuttezza e la ritrosia dei liguri a mostrar troppo. Ed è lei che mi ha regalato la mia nuova definizione, comoda come un guanto: mamma feroce.

Sono una mamma feroce perché quando i miei figli devono partire per i campi scout (tutti e tre insieme contemporaneamente) io conto le ore, i minuti e i secondi. Festeggiando la solitudine, i risvegli in una casa silenziosa, l’assenza di macchinine e carte dei calciatori disseminate sul pavimento, le cene tassativamente fuori casa.

Sono una mamma feroce perché quando ho visto il figlio grande sbandare pericolosamente in bici, l’ho immaginato sfracellarsi sull’asfalto e rompersi una gamba, il braccio opposto, sfigurarsi il viso. E in un attimo mi è passata davanti agli occhi la nave che ci avrebbe dovuto portare di lì a poco in Corsica: lei in mare e noi chiusi in casa con il figlio in trazione. Quando l’ho visto in piedi senza un graffio, l’unica frase che sono riuscita a pronunciare è stata “sei un cretino”. E continuo a pensarlo.

Sono una mamma feroce perché una volta (lo scorso anno) ho perso Lucia da Tiger e non me ne sono accorta. Se n’è accorta lei, che ha fermato un passante, si è fatta dare il telefono e mi ha chiamata. Io ero 4 o 5 isolati più avanti, inconsapevole che mia figlia non fosse tra i parenti e amici con cui stavo andando in giro. Sono tornata indietro, un po’ preoccupata, ma più ridendo: in fondo era andato tutto bene, non avevo avuto il tempo di preoccuparmi. E Lucia aveva dimostrato capacità di gestire la situazione, in fondo era stata l’occasione per imparare una lezione.

Sono una mamma feroce perché ho tolto il ciuccio ai figli sempre in maniera piuttosto decisa, quando il mio orologio biologico interno decideva che era arrivato il momento. Per Lucia coincideva con l’inizio delle vacanze di Natale, una mamma incinta di 6 mesi, il letto da grande. E la varicella. Perché il ciuccio lo posso controllare, sulla varicella ancora non riesco a far valere la mia autorità.

Sono una mamma feroce perché quando il figlio piccolo fa i capricci perché non riesce a dormire, io vado una, due, tre volte da lui. Poi mi innervosisco e allora lo faccio alzare e stare sul divano con me. Seduto, perché deve essere sufficientemente scomodo da aver voglia di tornare nel letto e smetterla di rompere le scatole a me che vorrei dormire.

Sono una mamma feroce e non ho neanche bisogno di allenarmi. Sono caduta nel pentolone della pozione magica da piccola, come Obelix.

multi genitore

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Questo weekend ho fatto i compiti.

Ho interrogato di latino il grande (“chiedimi la forma attiva mamma, la so”: dopo due domande era chiaro che non la sapesse a sufficienza. “Studia ancora, non la sai”). Oggi avrei dovuto interrogarlo sulla forma passiva, ma sostiene di saperla, vedremo.

Ho fatto ricopiare al piccolo un esercizio con errori di italiano che non riesco neanche a concepire (domanda “Ti è mai capitato di essere escluso?” Risposta “si, mie capitato”) e soprattutto non so come insegnare ad evitarli. L’ho interrogato di scienze e, come nelle precedenti due esperienze, ho cercato di evitare la ripetizione a pappagallo delle parole esatte del libro.

Ho aiutato a dare una forma più corretta al testo di italiano della media in cui descriveva il suo peluche preferito (“Pi ha subito molte operazioni”) e devo ammettere che, a parte qualche dubbio sulla costruzione del discorso, il racconto mi ha piacevolmente stupito per l’ironia in cui riconosco la pazzerella che lo ha scritto.

Vedo genitori di figli unici concentrati sulla prole con una dedizione e un affaticamento che non posso provare, perché proprio mi mancano le condizioni necessarie. Io il sabato mattina, con tre tavoli diversi su cui stanno facendo i compiti, mi sento come un ferroviere che gestisce gli scambi di una stazione piena di binari. E questa sensazione si ripete identica quando bisogna far quadrare gli accompagnamenti ai vari sport e impegni di ciascuno di loro tre.

E dire che l’altra mattina, tornando dall’accompagnamento a scuola, ho visto una donna con diversi bambini intorno. Ci ho messo un po’ a contarli: due in un passeggino doppio, due attaccati ai lati del passeggino, altri due un paio di metri indietro, con il grembiule e le cartelle per la scuola elementare. Totale 6 minorenni. Erano in ritardo per la scuola , ma come biasimarla?

le parole che ho da darti

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Ci ho messo un po’ di giorni a scrivere per il tuo compleanno, perché la mia testa è troppo piena e c’è poco spazio per i pensieri, indispensabili per far nascere le parole.

Sono proprio queste il regalo più grande che ti ho fatto, le parole. Da leggere e da scrivere, da ascoltare e da pronunciare. L’amore per le parole che danno vita alle cose, che rendono reali e concrete le emozioni, che mettono in relazione mondi e persone.

Saranno state le ore passate insieme a Pietra Ligure, in cui cantavo e parlavo con te in braccio davanti all’incubatrice. Saranno state le lettere che ho iniziato da subito a scriverti, per dirti le mie paure, ma anche la mia fiducia sconfinata che ne saremmo usciti insieme, che se le cose non vanno da subito per il verso giusto la tua caparbietà e il tuo lavoro instancabile le sapranno riportare sulla via che hai deciso. La consapevolezza che la forza non è rigidità, ma rigore.

E adesso sei qui, coi tuoi 14 anni e tre giorni, con le tue parole di giustizia e rabbia, con un libro sempre sul comodino, con la tua lingua che non sa trattenere i tuoi pensieri, con la tua intelligenza brillante e sempre accesa. Sei qui con le debolezze che riconosco anche in me e che cerco di affrontare con te, per accettarle entrambi, per impedire che diventino ostacoli al tuo cammino. Sei qui con la tua ambizione, coi tuoi sogni, con il tuo sguardo dritto e aperto sul futuro.

E anche se è vero che chi si loda si imbroda, riconosco che mi emoziono a guardarti, a osservare il tuo percorso, ad apprezzare la tua compagnia, non solo perché sei mio figlio, ma perché sei una giovane persona ricca e piena di possibilità. Non mi stupisco però, Jacopo, di quello che sei diventato in questi 14 anni: lo vedevo già in quella mano aggrappata al mio dito, in quella forza inesorabile che hai messo per crescere, perdere le piume e aprire le ali verso il mondo.

Buon compleanno, amore mio, continua a essere quello che sei: è tutto ciò che puoi fare nella vita e sarà tanto, se lo farai fino in fondo.

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Ci sono quelli che non riescono a guardarti negli occhi mentre ti parlano tanto sono timidi e poi sfoggiano capelli dai colori e dai tagli improbabili, quanti sfrontati.

Ci sono quelli che sembrano acque tranquille e poi basta una domanda per trasformarli in torrenti saltellanti e carichi di spinta.

Ci sono quelli che contestano ogni cosa e sono quasi sempre polemici, ma poi sono sereni e allegri, capaci di esprimere la loro opinione e consapevoli del fatto che hanno dei talenti, magari non sanno bene quali siano ma sanno che prima o poi verranno fuori.

Ci sono quelli che dicono sempre “scusa” e “grazie infinite” e temono che qualcuno si offenda o si possa sentire discriminato per ogni loro pensiero e allora non lo esprimono. Il loro corpo, i loro movimenti nello spazio, i loro occhi e le loro parole raccontano una sofferenza enorme, troppo grande per quei 17 anni, troppo totale per non soffocare tutta la vita che hanno davanti.

Ci sono quelli che non vanno più a scuola, che vedi fumare dalla finestra di camera loro che si affaccia sul tuo stesso cortile, che riempiono con i propri amici l’ascensore e sbattono i loro corpi contro le pareti e le porte, rischiando di romperle. E tu corri per 8 piani di scale per arrivare in tempo a trovarli nell’androne, per dirgli che essere maleducati non è rivoluzionario, essere menefreghisti non è figo, rovinare le cose comuni è stupido. E per fissare i tuoi occhi nei suoi, perché lui si ricordi che chi sta parlando è qualcuno che l’ha visto alle recite della scuola materna, alle uscite scout, agli allenamenti di calcio. Qualcuno che gli vuole bene e non può accettare di stare in silenzio quando lo vede sprecare la sua vita.

Ci sono quelli che si agitano per l’esame di terza media e ripetono lo schema che hanno preparato alla nonna e non vogliono adulti ad ascoltare, solo i loro amici. E poi quando l’esame è finito, escono felici e saltellanti da scuola, parlando a ruota libera, finalmente sorridendo.

Ci sono loro, le ragazze e i ragazzi che stanno affrontando la vita che si srotola davanti ai loro occhi. E poi ci siamo noi, gli adulti, le donne e gli uomini che cercano un passo sufficientemente stabile, per dar loro sicurezza, e leggero, per entrare nella loro vita in punta di piedi.

Non so quale sia il compito più difficile, se il loro o il nostro. So che tutti e due sono indispensabili.

le parole sono importanti

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Lo diceva Moretti in Palombella Rossa, lo penso ogni volta che ascolto un telegiornale, ce lo ha detto ieri una maestra di scuola elementare, dopo un incontro poco edificante tra insegnanti, genitori, esperto di un laboratorio svolto a scuola.

La parola importante in questo momento per me, quella di cui vorrei recuperassimo il significato, è la parola “ruolo”.

È quello che abbiamo perso quando giustifichiamo tutti i comportamenti dei nostri figli e cerchiamo le colpe dei loro sbagli o insuccessi negli altri. Se il dettato è pieno di errori di ortografia sarà la maestra che non ha scandito bene le parole, se davanti a scuola il pargolo scappa dal nostro controllo è perché i bambini sono così, vivaci e imprevedibili, se è stato espulso durante la partita di basket sarà l’arbitro che non ha visto gli errori dell’altra squadra. Cerchiamo sempre le colpe negli altri e dimentichiamo che il nostro ruolo è fare i genitori: dare regole, osservare i nostri figli e riconoscerne pregi e difetti, per aiutarli a lavorare sui primi e valorizzare i secondi per metterli al servizio di chi hanno a fianco. Amarli, incondizionatamente, senza ricatti e troppe aspettative, ma con la consapevolezza che hanno luci e ombre e quello che siamo chiamati a fare è aiutarli a diventare il meglio di loro stessi.

Vorrei che gli insegnanti si ricordassero che il loro ruolo è quello di trasmettere delle competenze e aiutare nella crescita, osservando ciascun bambino o ragazzo e costruendo un percorso personalizzato, adatto a ciascuno. Testimoniando, con il loro comportamento, con il tono della loro voce, con il loro modo di stare in classe il rispetto per gli altri, il dialogo che è l’unica strada per vivere in maniera costruttiva il conflitto e uscirne avendo imparato qualcosa. Vorrei che si ricordassero che noi genitori siamo qualcosa di diverso da loro, che con noi devono avere un atteggiamento di condivisione di intenti e collaborazione, anche di complicità. Mai di compiacimento o subalternità, mai arroganza o superiorità.

Vorrei che le istituzioni ricordassero il loro ruolo di garanti dei diritti di tutti, di servi dello Stato, di progettato ed esecutori di politiche a lungo termine, volte allo sviluppo e all’evoluzione della nostra società. Vorrei che noi cittadini sentissimo di nuovo sulle nostre spalle il ruolo di costruttori di una comunità solidale, equa, rispettosa degli altri, regolata dai diritti e non dalla furbizia.

Se alzandoci la mattina avessimo la parola “ruolo” scritta in fronte, tatuata nella nostra coscienza andremmo per il mondo consapevoli della nostra responsabilità, capaci di collegare pensiero e azione, presenti a noi stessi e utili al mondo. E staremmo tutti meglio, perché giocheremmo il gioco di società in cui siamo immersi seguendo delle regole condivise, pensate affinché il gioco sia divertente, utile, proficuo. Non rispettare il proprio ruolo è come giocare senza rispettare le regole, barare e buttare all’aria il tabellone. E il gioco diventa un incubo.

inciampatevi

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Oggi vi ho visto tutti vicini, allegri e concentrati. Oggi avete suonato il violino per la strada e sembrava che foste nati con quello strumento in mano. Oggi avete letto la storia di una persona, avete raccontato come si chiamavano i suoi genitori, come si chiamava lui, cosa aveva studiato e quale lavoro faceva. Dove è nato e dove è morto.

Vi auguro di inciamparvi spesso nella vostra vita. Nelle storie degli altri, che se ascoltate a fondo possono aiutarvi a costruire la vostra. Nei nomi di chi vi vive a fianco e dei loro genitori, per farvi riscoprire il valore dell’identità personale e della storia da cui si proviene, per farci capire che l’anonimato e l’assenza di storia sono pericolosi e innaturali. Inciampatevi nella memoria di quello che è accaduto, per imparare che i cambiamenti, positivi o negativi che siano, avvengono un giorno per volta, decisione dopo decisione, scelta dopo scelta. Ed in questa libertà di scelta, che tutti abbiamo, sta la nostra responsabilità nel mondo. Inciampatevi nei vostri talenti e nelle vostre debolezze e prendetevi l’impegno di fare i conti con entrambi. Richiederà impegno, sacrificio e fatica a volte. Ma sarà l’unico modo per essere appieno voi stessi.

Insegnateci a inciamparci ancora, in questa pietra che avete posato oggi e in quelle che dobbiamo ancora riconoscere, perché a qualsiasi età abbiamo bisogno di cadere per imparare a rialzarci.

a Rimini ho visto 

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A Rimini ho visto centinaia di biciclette sfrecciare tra la folla, nel sotto passaggio verso il mare, aspettare fiduciose i padroni davanti a un bar senza essere legate.

A Rimini ho visto due gemelle coi capelli rossi, nate da madre riminese e padre torinese ed è stato bello conoscerle, incontrare questa famiglia (rigorosamente in bici), sentire sempre forte il legame  con le sorelle e i fratelli scout.

A Rimini ho visto insegnanti studiare una didattica nuova per avvicinare i ragazzi alla lettura, vivere l’autonomia scolastica con quella leggerezza e responsabilità che rende l’aula una cosa (e una casa) meravigliosa e non un posto privo di controllo e abbandonato.

A Rimini ho parlato con ragazzi che leggono 150 libri all’anno e quindi ne sanno molto più di me e mi hanno insegnato molte cose, alcune fondamentali, come sapere cos’è una ship (no, non è solo una barca). 

A Rimini ho detto ad alcuni ragazzi dove mettere il portafoglio per non perderlo, ho insegnato a lavare i finocchi, ho imprestato asciugamani per la spiaggia, ho dato orari di rientro. 

A Rimini ho lavorato con persone che diventano ogni giorno un po’ più amici, oltre che colleghi, ho conosciuto donne con cui sentì quell’affinità elettiva che te le fa abbracciare forte quando ti saluti al binario di un treno.

A Rimini ho visto ragazzi allegri, impegnati, responsabili, protagonisti, efficienti, frizzanti e cazzari. Ho visto ragazzi amati e pensati, di quell’amore e quei pensieri che ti liberano dentro e ti danno fiducia nel mondo e nei tuoi talenti. 

A Rimini ho ballato con i ragazzi perché un amico ha detto che gli adulti di solito camminano davanti a loro, come per dire “seguimi”, oppure un po’ indietro, come per dire “controllo i tuoi passi”. E invece ieri sera camminavamo insieme, occupando lo stesso marciapiede.

A Rimini ho attraversato una ronda di Forza Nuova e non so dire se avevo più i brividi o la rabbia che mi saliva da dentro e rischiava di diventare parola. Sono rimasta di sasso di fronte a due 16enni che mi hanno chiesto cosa fossero il fascismo e il nazismo e mi sono chiesta come sia possibile che mio nonno mi raccontasse la storia dei fratelli Cervi e della loro mamma che ogni sera apparecchiava il tavolo anche per loro e questi ragazzi non sappiano da quale barbarie è nata la nostra Repubblica. 

A Rimini mi sono sentita a casa e ho pensato tanto alla mia casa, che mi porto sempre dentro, di cui parlo in continuazione, che mi permette di volare.