trova le differenze

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C’è la mamma che si preoccupa. Fa mille raccomandazioni, verifiche e controlli su ciò che devono fare gli altri affinché la sua progenie arrivi sana e salva alla destinazione che ha in mente: la scuola media a due isolati da casa, il centro sportivo a due pullman di distanza, il supermercato di quartiere. Vive vedendo pericoli a ogni angolo, drammi in agguato e ovviamente complotti alle spalle del proprio cucciolo.

La mamma che si preoccupa prenota i libri scolastici prima ancora che il bambino o ragazzo in questione vada a scuola, chiede nella chat di classe l’elenco del materiale per l’anno nuovo il primo giorno di vacanza, fa un breve sondaggio per sapere chi parteciperà allo sciopero del giorno dopo in seconda superiore, conosce alla perfezione le previsioni del tempo in occasione di qualsiasi gita o uscita scolastica, in pieno lockdown vorrebbe entrare a scuola per recuperare il sacchetto igienico in modo da poter lavare tutto il lavabile (forse anche le copertine di plastica dei quaderni).

La mamma che si preoccupa fa video chiamate continue coi pargoli dall’ufficio, piomba di fianco alle scrivanie dei colleghi brandendo un cellulare da cui escono le urla di un minore che non ha ancora capito che ci sono i momenti giusti e quelli sbagliati per salutare le colleghe delle mamma e che si può usare un tono di voce normale e non sempre da gallina strozzata o da cartone animato. Tu stai scrivendo il progetto della vita e lei entra nella stanza col viva voce attivo, viene di fianco a te (che continui a tenere lo sguardo fisso sul computer, fingendoti imbalsamata) e ti piazza il telefono davanti al naso perché “la mia bambina vuole tanto tanto salutarti”. La mamma che si preoccupa quando può scegliere se usare 10 o 100 parole per rispondere alla domanda “come va la scuola di XY?” quasi sicuramente deciderà di usarne 110, per farti un quadro completo della situazione.

La mamma che si preoccupa è molto concentrata sulla sua missione di vita: evitare qualsiasi trauma alla creatura. Banditi i giochi competitivi, bandito ogni scontro verbale più o meno acceso, bandita ogni opinione diversa. Chiunque si interponga tra la creatura e la sua libera volontà si sentirà un pippone galattico di quanto ogni nota, sgridata, correzione, disappunto mini l’equilibrio psicofisico della creatura stessa, la costruzione della sua autostima e la realizzazione di un futuro radioso. Che questo voglia dire non avere consapevolezza dei propri limiti non è qualcosa che impensierisce la mamma che si preoccupa: il limite è solo uno stato mentale.

La mamma che si preoccupa fa tutte queste cose e qualcuna in più. Salvo poi arrivare costantemente in ritardo a prendere i figli a qualsiasi attività, farli arrivare il giorno sbagliato alle prove generali del concerto, del saggio o di qualsiasi cosa (e dire che non li hanno avvisati per tempo), imbarazzarli davanti agli amici (come quando mia nonna prendeva dalla borsa il fazzoletto e mi diceva “vieni qui che ti pulisco il muso” dopo che avevo mangiato il gelato).

La mamma che si occupa punzecchia i figli perché trovino informazioni sui treni e sui percorsi per andare in montagna con gli amici (più piccoli di lui e di cui sarà responsabile), ascolta la logistica organizzata dal 16enne e da dei consigli, passa molto tempo a confrontarsi e poco a fare. Non controlla, ma resta lì, nel caso servisse ancora un consiglio. La mamma che si occupa fa il percorso in pullman fino al centro sportivo con la figlia, osserva insieme le strade, i negozi, i punti di riferimento; fa scaricare l’app e insegna a usarla e poi ha il telefono vicino quando per la prima volta la 13enne in questione prenderà il pullman da sola per tornare a casa della nonna: non chiama, ma resta lì, nel caso servisse un incoraggiamento.

La mamma che si occupa non sa cosa stiano facendo i figli nel programma di tecnologia o di italiano e neanche se nella prossima settimana ci saranno tre interrogazioni e due compiti in classe. Ma a cena i racconti delle giornate di tutti i membri della famiglia si sovrappongono e spesso vengono fuori le cose più importanti della scuola: la discussione col compagno o con l’insegnante, la lezione molto interessante o noiosa, i progetti nuovi e le normali paure.

La mamma che si occupa a volte chiama i figli durante il giorno e a volte no, perché si fa prendere dal lavoro e dalle cose da fare, perché a pranzo esce coi colleghi e chiacchiera con loro, perché pensa che poi comunque ci rivedremo a casa tra poco. A volte chiama e chiede come è andata la mattinata, risponde quasi sempre ai loro messaggi e alle chiamate: a volte sono stupidaggini, altre volte cose più importanti. Le video chiamate non fanno parte delle sue abitudini quotidiane e il viva voce è un tasto sconosciuto.

La mamma che si occupa racconta che il confronto tra persone con opinioni diverse a volte può essere acceso, ma non deve mai prescindere dal rispetto e dalla correttezza verso l’altro. La critica è la benvenuta in ogni discussione, a patto che sia per costruire e non per demolire e che si usi lo stesso rigore nell’osservare se stessi e gli altri. La mamma che si occupa stimola la competizione verso se stessi, insegna che i limiti esistono e ci si deve arrivare molto vicino per conoscerli e imparare a superarli, quando si può. In qualche caso bisogna accettarli e usare tutta la propria forza di volontà e intelligenza per trovare soluzioni alternative.

La mamma che si occupa lascia autonomia e usa la maggior parte del suo tempo per fornire gli strumenti per camminare da soli e avventurarsi fuori dal recinto, non per controllare o chiudere il cancello. Resta sulla stessa strada e osserva il viaggio, intervenendo solo se veramente necessario o se richiesto. Si affida ai figli (e un po’ anche alla fortuna) e alla loro capacità di imparare dagli errori e rialzarsi da soli. Vive e lascia vivere, con tutti i rischi che questo comporta. Con tutta la bellezza che questo comporta.

le cose che mi tengono a galla

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Oggi è un mese esatto che non esco da casa (sì, perché andare a comprare il latte, la verdura, ritirare la spesa con Coop drive, portare Jacopo dal dentista non lo considero uscire). È un mese in cui tutti i 30 giorni sono stati segnati sul mio calendario interno, uno dopo l’altro, cercando di costruire routine, alimentare progettualità, ricacciare indietro sconforto, noia, fatica.

Dieci cose mi hanno tenuto a galla.

I miei ragazzi, impegnativi e presenti. I loro bisogni da ascoltare, le loro cadute, i loro guizzi di generosità e altruismo. La loro vita che prosegue e di cui insieme dobbiamo continuare a progettare la strada.

Il lavoro che faccio, che mi incita a mettermi sempre in cammino e al servizio. Inventarsi modi nuovi per farlo, incontrare insegnanti e studenti, vedere la casa dei nostri autori è il modo che preferisco per sentirmi viva e vigile.

La cucina, croce e delizia di questa quarantena. Quando tutto questo sarà finito chiuderò i fornelli per qualche mese e vivremo di cibo da asporto. Ma cucinare è trasformare, far evolvere, dare forme diverse a ciò che si ha di fronte (e in tutto questo c’è qualcosa di catartico per me).

La scuola e gli insegnanti dei miei figli, che osservo dalle retrovie, sentendo lezioni della professoressa di italiano attraverso il muro che separa la camera dal salotto o guardando i compiti dati (e sempre corretti) dalle maestre. Sapevo già prima che eravamo stati fortunati, ma adesso ho proprio la voglia di abbracciarli e magari commuovermi un po’ con loro. Per quanto sono cresciuti in mezzo a questa tempesta i nostri ragazzi e ragazze, quanto abbiamo remato insieme perché la loro canoa superasse le rapide intera.

I libri, che non riesco a leggere con la concentrazione e la leggerezza che ho d’estate, quando le pagine scorrono una dietro l’altra. Ma loro sono sempre lì, con le loro parole per me, che mi curano e mi portano fuori dal qui e dall’ora.

La musica e la sdraio in balcone, in cui mi rifugio alla ricerca di solitudine. Perché sembra assurdo ma mi manca tanto il restare da sola, senza nessuno intorno. Rimpiango addirittura il viaggio quotidiano in tram per andare e tornare da lavoro.

La mia famiglia allargata, una rete che ha saputo stringere le maglie per non far scivolare nessuno fuori. Che ha messo insieme risorse, scambiato cibo e acquisti, consegnato a domicilio libri, verdura, semi e terra. E portato in ogni occasione vicinanza. Più di quella che dimostro normalmente.

Gli amici, quelli di sempre, quelli che già c’erano. Quelli che ti chiamavano prima, ti invitavano a cena prima, ti pensavano prima. Ci sentiamo più spesso, più spesso condividiamo foto di cose normali, vocali lunghissimi, chiamate, pensieri. Non mi sento sola in questo momento perché so che in tante case c’è lo stesso ottimismo della volontà che ci farà ricostruire un tessuto civile degno di questo nome.

Il sole, che se fosse stato un marzo piovoso avrei abbattuto i muri a testate e adesso vivremmo in un openspace. Il cielo azzurro di queste mattine non solo mi mette in pace, ma fa bene alle mie piante e al mio colorito. Così magari uscirò dall’isolamento con un’aria vagamente sana.

Il mio compagno di viaggio per eccellenza, che accoglie i miei momenti di sconforto e si lascia spronare dalla mia energia, quando a essere sconfortato è lui. So che non sono mai sola, che ogni prova la affrontiamo insieme e questo mi da una tranquillità incredibile. Ne usciremo comunque, sempre in due.

tutti dicono voilà

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Oggi ho fatto una gita di lavoro. Ho preso il treno presto. Ho visto scorrere dietro al finestrino la periferia, poi la tangenziale, poi la campagna. Ho visto un po’ di neve per terra e già ero contenta. Poi i campi sono diventati completamente bianchi e io avevo una gioia dentro di quelle che hanno i bambini o i cani, esseri semplici ed entusiasti per istinto.

Ho ascoltato parole sulla dignità e sulla decenza, che sono caratteristiche comuni, non segni distintivi di caratteri speciali e straordinari. Ho sentito dire che “eroe” è una parola bugiarda perché ci pone in un ruolo di spettatori, ci dà un alibi. E in testa sento le parole di Italo Calvino “l’eroismo non è sovrumano” della canzone Oltre il ponte.

Quella canzone, in questa città. Cuneo, città medaglia d’oro per la Resistenza, con le piazze intitolate ai partigiani, con le lapidi sui palazzi. Con una mostra di pannelli sotto i portici dedicati a Nuto Revelli. L’anello forte, quello di nonno, è sul mio comodino da parecchi mesi. L’ho già letto, ma forse non lo tolgo per tenermelo vicino sempre, nei sogni a occhi aperti e in quelli a occhi chiusi.

Ho sentito parlare di confini, ponti e muri in Europa. E non c’è posto migliore di questo per fare discorsi del genere. Questa terra che è franco-piemontese, con i portici, i palazzi eleganti e le piazze d’armi. Con un ponte che ti conduce alle porte della città, le montagne intorno. Con il mercato coperto che sembra Luserna San Giovanni o Mentone. È uguale: le radici, nel profondo, sono le stesse. Con un dialetto che ha il suono della mia infanzia e le persone che dicono “voilà”.

rappresentanza, questo incredibile mistero

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Ho un problema con la rappresentanza, da sempre. Credo che le origini di questa turba nascano da quello che ho respirato fin da piccola – odore di responsabilità – e dal cibo con cui sono stata svezzata – pane e politica. La frase che ho sentito più spesso dire dagli adulti che ho avuto la fortuna di avere intorno (genitori, nonni, amici di famiglia, professori) è “hai fatto una parte del tuo dovere”. E io su questa parte, che evidentemente non era il tutto, ho costruito quel senso di dover fare sempre un passo in avanti e chiedermi, dopo ogni cosa, se avessi fatto tutto ciò che avrei potuto fare.

È questa l’abitudine che mi crea un enorme problema con la rappresentanza e come viene interpretata dal mondo intorno. Perché, per come la intendo io, non basta inoltrare una mail, un file, una circolare: bisogna aiutare a interpretare chi magari ha meno strumenti, poca attenzione, meno consapevolezza del valore di ciò che significa essere in una comunità. Non basta essere seduto su una sedia durante una riunione di un organo collegiale se si ha la stessa reattività della pianta di plastica che si ha alle spalle. Perché lì bisognerebbe condividere idee, delineare percorsi, voler capire, definire principi e valori che guidano la quotidianità. Non basta occuparsi dei progetti all’inizio, quando la scintilla ha appena infiammato la paglia e la fiamma è bella colorata. Perché quel fuoco non scalda un granché e fa soltanto scena; invece bisogna restare nei progetti dall’inizio e fin oltre la fine, in quella fase che si chiama verifica e che così pochi sanno che esista. E invece è l’inizio di tutto, il soffio leggero sulle braci che daranno vita alla nuova combustione.

Ho un problema con la rappresentanza perché penso che chi decide di rappresentare qualcuno dovrebbe sentire su di sé una continua tensione a mettersi al servizio degli altri con onestà intellettuale, competenza, passione, continuità, serietà. E dovrebbe essere un po’ più brillante, consapevole, attento, capace. Non basta la buona volontà, bisogna essere adeguati al ruolo. E invece non è così e a questo punto mio marito mi direbbe “ancora ti stupisci?” e ha ragione: io casco sempre dalle nuvole in queste cose. Siamo in tempi di rappresentanza alternata, come il traffico nelle strade con lavori. Con un semaforo che si è incantato sul rosso, il tempo del riposo. E mentre i rappresentanti dormono, la comunità si dissolve.

da che parte stare

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Sto facendo dei pensieri in questi, giorni, settimane, mesi. E non sono pensieri leggeri. La mia vita è felice, incasinata il giusto o leggermente un po’ più del giusto. Le strade di fronte a me e ai miei ragazzi sono aperte, potranno essere quello che vorranno, che sapranno sognare e realizzare. I miei amici e colleghi sono persone con cui condivido progetti, valori, azioni e principi. Va tutto bene.

Ma quando esco dalla mia bolla il mondo intorno è colmo di brutture, di rabbia, di violenza, di ingiustizia. E ogni giorno che passa tutto questo aumenta e diventa normale, accettabile, nella migliore delle ipotesi un effetto collaterale che dobbiamo accettare: per garantirci la “sicurezza”, perché “mica gli altri prima erano tanto meglio”, perché “prima i nostri”.

Sto pensando che mentre la mia vita procede, intorno ci sono vite in pericolo. Quella di Angele e di tutti i ragazzi e le ragazze di colore, magari adottati da famiglie che quando li mandano da soli in pullman o in pizzeria con gli amici sperano che non gli capiti di incontrare qualcuno che si senta in diritto di insultarli e dirgli di tornare “a casa loro”. E si permetteranno di dirlo a loro, non ai miei figli che hanno la pelle del colore “giusto”.

Quella di Manuela che è sposata con una donna e ha la corazza dura e non mi racconta la fatica, le discriminazioni, i giudizi. Ma sono tutte ferite dentro di lei, cicatrici che la segnano.

Quella dei ragazzi che Lucrezia ed Enrica incontrano ogni giorno, arrivati in Italia di nascosto, che vivono in un tempo di attesa, senza diritti, senza prospettiva, senza possibilità di progettare il proprio futuro.

Mentre la mia vita va avanti, c’è un altro pezzo di questo stesso mondo che non ha diritto a una vita dignitosa, che rischia ogni giorno per il solo fatto di essere com’è: nero, omosessuale, povero. E in questo tram su cui sono adesso, potremmo contare quanti pensano che questo sia un effetto collaterale che dobbiamo accettare, una stortura del mondo che non possiamo caricarci addosso. E non ci basterebbero le dita delle mani e dei piedi di molti di noi.

Stiamo scivolando su un piano inclinato, rotolando sempre più giù, accettando il degrado più folle e inumano. Come se fosse normale, accettabile, inevitabile.

Tutto questo mi sta logorando, mi sta consumando dentro. E non posso più incontrare le persone e fare finta di niente: non posso comprare la frutta o il pane da qualcuno che pensa che i porti debbano restare chiusi e le navi delle ong affondate, non posso salutare un vicino di casa che pensa che l’omosessualità sia una malattia, non posso cenare con degli ex colleghi che pensano che sparare a un uomo alle spalle che ha rubato a casa tua sia legittima difesa. Si difende la vita, prima di tutto.

Non posso più, perché l’imparzialità sui valori non può esistere. Perché siamo tutti, per sempre coinvolti e responsabili di ciò che sta accadendo intorno a noi. Perché è il momento di scegliere da che parte stare e ce n’è una che rispetta l’umanità e poi c’è l’altra. Che la maltratta, la violenta, la lascia morire, la uccide.

ps. nella foto, una rosa di Sarajevo

perché leggo

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“Io leggo perché quando leggo sono libero”

Me lo ha detto un ragazzo di seconda media, una mattina che sono andata nella sua classe a parlare di lettura.

Io leggo per capire e in questo periodo prima sono arrivati i libri e poi la realtà li ha seguiti. Storie che parlano di adolescenti che si scoprono fragili e vulnerabili, di famiglie che cercano di svuotare l’acqua che li sta facendo naufragare con un cucchiaio, di violenza, di libertà, di fughe in avanti che sono fughe da sé. Come in un sogno premonitore la realtà mi racconta un dolore simile, un isolamento graduale e che sembra non possa risolversi, la ricerca nella memoria di quando si è rotto qualcosa, il bisogno di identificare il momento preciso.

Leggo per capire e poi giro ogni pagina con un dubbio in più, con un peso maggiore nel cuore. Ma qualcosa la capisco in effetti: leggere le storie che ci fanno paura, le fatiche che possiamo incontrare ci serve a capire che non troveremo mai le risposte e mai dovremmo avere l’arroganza di pensare di conoscere le soluzioni. Dovremmo leggere per sviluppare la nostra empatia, per provare a metterci nella pelle di chi sta attraversando quel dolore, per capire che mai dovremmo sentirci immuni da qualcosa, mai dobbiamo pensare di essere salvi.

La vita ci travolge e l’unica cosa che possiamo fare, è starci dentro e fare del nostro meglio.

Continuo a leggere, per sentirmi a volte più triste ma meno spaesata. Continuo a leggere perché ci sono momenti in cui non so fare altro. Non posso fare altro.

le elezioni

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– Quando ero piccolo il giorno delle elezioni era una festa –

Mi ha detto così un amico l’altro giorno in macchina, tra una chiacchiera e l’altra: le figlie a scuola insieme, il suo lavoro incerto, i nostri nonni entrambi comunisti.

Anche per me il giorno delle elezioni era ed è una festa. Perché provo un’emozione speciale ad andare a fare il mio dovere, un rito laico fondamentale per la mia identità. Entro nel seggio e sorrido di più: al vigile nell’atrio della scuola, a chi è in fila davanti a me, a chi lavora al seggio. Sorrido e penso che devo essere felice di poter votare, di esprimere il mio parere. Devo essere consapevole dell’importanza della mia goccia nel mare. Sorrido di più perché nel riconoscermi cittadina vedo una parte della mia dignità personale: non sono solo una mamma, una lavoratrice, una donna, una paziente quando vado in ospedale. Sono un’elettrice, una persona che va al seggio esprimendo un voto per la costruzione del bene comune.

Il giorno delle elezioni è mio nonno che va a votare presto, mia nonna che si fa accompagnare da me in quella che era la mia scuola elementare, mio marito che viene a letto troppo tardi perché aspetta i risultati. È la paura di sbagliare e rendere nullo il mio voto, è la voglia di riconoscersi in un progetto più grande, è una serata nella piazza del municipio a stringere la mano al mio sindaco e a brindare con vino in bicchieri di plastica. È la telefonata con un amico il giorno prima del voto. Perché ultimamente io e lui perdiamo sempre e il lunedì è sempre una giornata troppo difficile per sentirsi. È la bandiera europea che ho comprato e stasera appenderò al balcone.

Allora, buona giornata di elezioni all’amico col nonno comunista come il mio; a Matilde, Ludovica, Lorenzo e ai ragazzi che ho incontrato nelle scuole in queste settimane e che per la prima volta in vita loro voteranno; a chi si candida a Sindaco e alla sua famiglia. A me, che continuo a emozionarmi e a sentire forte quel bisogno di appartenenza che è “avere gli altri dentro di sé”

è tutta vostra la scuola

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Le cartelle sono pronte, i pennarelli e le matite etichettate. Il diario non lo avete perché io mi sono dimenticata di portare la ricevuta del pagamento in segreteria. I quaderni sono tutti nuovi, i libri dei compiti hanno ancora qualche pagina con i segni della vacanza: una pagina spiegazzata, l’altra gonfia di umidità.

Oggi si va a scuola e nella foto di famiglia ci sarà un solo grembiule azzurro. Oggi si va in terza elementare, prima media e prima liceo, con tre orari diversi di inizio e di fine giornata (spero che non faremo errori nell’accompagnarvi).

Buon nuovo anno di scuola ragazzi, ai miei e agli altri. Affrontatelo con entusiasmo e passione, indipendenza di pensiero e autonomia, disobbedienza e responsabilità, protagonismo e curiosità. Accostatevi alle materie con mente sgombra e intelligenza brillante, ai compagni con rispetto per i loro pensieri e la loro storia, agli adulti che vi accompagnano con onestà e disponibilità a crescere insieme.

Non è niente la scuola senza di voi, sono solo muri scrostati e banchi scheggiati, piastrelle del bagno scritte e palestre con reti da pallavolo cadenti. Potrà essere tutto la scuola con il vostro impegno, le vostre idee, la vostra vita: laboratorio di nuove possibilità, famiglia felice, esercizio di democrazia, comunità e società civile.

È tutta vostra la scuola, non sprecate questa possibilità. Fareste del male a voi e a noi. Che stiamo fuori dalla porta e vi guardiamo crescere.

inciampatevi

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Oggi vi ho visto tutti vicini, allegri e concentrati. Oggi avete suonato il violino per la strada e sembrava che foste nati con quello strumento in mano. Oggi avete letto la storia di una persona, avete raccontato come si chiamavano i suoi genitori, come si chiamava lui, cosa aveva studiato e quale lavoro faceva. Dove è nato e dove è morto.

Vi auguro di inciamparvi spesso nella vostra vita. Nelle storie degli altri, che se ascoltate a fondo possono aiutarvi a costruire la vostra. Nei nomi di chi vi vive a fianco e dei loro genitori, per farvi riscoprire il valore dell’identità personale e della storia da cui si proviene, per farci capire che l’anonimato e l’assenza di storia sono pericolosi e innaturali. Inciampatevi nella memoria di quello che è accaduto, per imparare che i cambiamenti, positivi o negativi che siano, avvengono un giorno per volta, decisione dopo decisione, scelta dopo scelta. Ed in questa libertà di scelta, che tutti abbiamo, sta la nostra responsabilità nel mondo. Inciampatevi nei vostri talenti e nelle vostre debolezze e prendetevi l’impegno di fare i conti con entrambi. Richiederà impegno, sacrificio e fatica a volte. Ma sarà l’unico modo per essere appieno voi stessi.

Insegnateci a inciamparci ancora, in questa pietra che avete posato oggi e in quelle che dobbiamo ancora riconoscere, perché a qualsiasi età abbiamo bisogno di cadere per imparare a rialzarci.

1 settimana, 7 giorni, 168 ore

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Tutto è cominciato con una spia che ho finto di ignorare, una piccola luce rossa lampeggiante sul pavimento e un suono leggero ma insistente, un bip ripetuto senza sosta. Abbiamo trovato soluzioni alternative, parziali ma comunque dignitose, ma si sa che si impara ad accontentarsi. Poi però abbiamo ceduto e dopo qualche tentennamento abbiamo pensato di smetterla di fare gli struzzi, mettendo la testa sotto la sabbia, e abbiamo deciso di affrontare la questione. Non sapevamo che quella sarebbe stata una strada senza ritorno.

L’assenza mi ha colpito dritto nello stomaco. Quella voragine, seppur attesa e programmata, ha trascinato le mie ultime energie di una giornata iniziata troppo presto, con troppe ore passate in macchina, con troppa tensione accumulata.

Dal mattino dopo la mia mania di controllo di ogni situazione ha preso il sopravvento e ho cercato di imporre a me stessa un’organizzazione ferrea, per dimostrare ancora una volta che “non esiste buono o cattivo tempo, ma solo buono o cattivo equipaggiamento”. E quindi mi sono equipaggiata e ho immerso ogni sera le mani nell’acqua calda e insaponata, ho accatastato pentole, piatti e bicchieri su uno scolapiatti minuscolo e ho evitato ogni spreco di risorse, riutilizzando le forchette e i bicchieri, senza sprecare neanche un contenitore.

Intanto però sentivo dei cigolii, dei rumori come di ingranaggi che si muovono armonicamente, un lento scrosciare d’acqua.

Invece no. Domani è una settimana che viviamo senza lavastoviglie. I primi giorni mi sembrava di potercela fare, il figlio piccolo addirittura si è offerto di aiutare (“domani sera mamma li lavo io i piatti” “grazie Diego, ma posso farlo io” ho risposto, già immaginando il disastro di schiuma, acqua, piatti rotti e pentole rimaste sporche) e di fronte all’amica che mi ha chiesto se stessi usando i piatti di plastica ho sorriso e affermato convinta ” ma vaaa”. Poi, quando la sera sul divano mi è sembrato di sentire dei rumori in cucina, ho capito il senso profondo del concetto “arto fantasma”: la lavastoviglie non c’è, ma è come se io la sentissi ancora respirare, muoversi, produrre quel movimento regolare e confortante. La lavastoviglie non c’è e io sto diventando l’incubo telefonico della signorina dell’assistenza, che sento con regolarità da venerdì scorso. La lavastoviglie non c’è e io so che sarò disposta a rinunciare a tutto quando mi daranno l’appuntamento per riportarla a casa. La lavastoviglie non c’è e io ringrazio la mia buona stella che ha evitato di farmi organizzare pranzi o cene con amici in questi giorni di feste e weekend allungati. La lavastoviglie non c’è e ogni volta che guardo la porta del balcone tutto il mio ottimismo e la mia energia viene risucchiata in quel buco a fianco del lavandino. La lavastoviglie non c’è ancora e io sono una donna sull’orlo di una crisi di nervi (e ho quasi finito il detersivo per lavare i piatti).