un’alleanza

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Dicevamo che saremmo stati migliori. Che avremmo abbracciato vicini e lontani, che avremmo capito cosa conta davvero: gli aspetti educativi della scuola e non solo quelli normativi, la relazione tra le persone, la vita all’aria aperta, il valore della professionalità di ciascuno (abbiamo applaudito dai balconi per medici, infermieri, netturbini, commessi del supermercato, genitori, dogsitter e cani, runner, zii e cugini di settimo grado, parcheggiatori abusivi e ovviamente scienziati fino a toglierci la pelle dalle mani).

Dicevamo.

E poi siamo tornati pian piano alla vita quotidiana. Con un’ansia per le norme che sembra farci dimenticare tutto il resto. Soprattutto ci fa dimenticare che quello che serve è un’alleanza. Tra i genitori e la scuola, che ha fatto un lavoro enorme per mettere nelle stesse aule tutti gli alunni di una classe. E se la finestra è ancora rotta, possiamo capire che la mancanza non è della dirigente o della professoressa di italiano. E sì, hanno sollecitato e lo fanno tutti i giorni a prescindere dalle nostre segnalazioni, perché la scuola sta loro a cuore.

Possiamo come maestre accogliere i genitori che accompagnano i bambini nel cortile della scuola elementare all’ora precisa definita dalle nuove norme con un sorriso e chiedere, sempre con il sorriso, che entrino solo alle 8 in punto, perché altrimenti il cortile si riempie di persone e il distanziamento ce lo dimentichiamo. E possiamo anche chiederci se l’ingresso allo scoccare dell’ora sia risolutivo o se l’assembramento semplicemente si creerà sul marciapiedi fuori dalla scuola e allora nella sostanza, sarà la stessa cosa.

Possiamo pensare che ciascuno sta facendo il proprio lavoro con mille dubbi, senza sapere cosa sia meglio, con il bisogno che gli altri suggeriscano miglioramenti partendo però dal presupposto che dietro quella scelta c’è molto ragionamento, molta buona volontà, molta competenza. E questo merita comunque rispetto.

Possiamo stringere un’alleanza, capire che siamo tutti dalla stessa parte, con l’obiettivo di tornare a portare i bambini e i ragazzi a scuola non solo perché gli adulti devono tornare a lavorare, ma perché la scuola (e anche il lavoro) è socialità, crescita, confronto e incontro, costruzione della propria identità, realizzazione di sé.

Possiamo iniziare a guardarci negli occhi e tirarci su le maniche, per costruire insieme. Perché indossiamo la stessa casacca e siamo nella stessa squadra: quella degli esseri umani.

le elezioni

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– Quando ero piccolo il giorno delle elezioni era una festa –

Mi ha detto così un amico l’altro giorno in macchina, tra una chiacchiera e l’altra: le figlie a scuola insieme, il suo lavoro incerto, i nostri nonni entrambi comunisti.

Anche per me il giorno delle elezioni era ed è una festa. Perché provo un’emozione speciale ad andare a fare il mio dovere, un rito laico fondamentale per la mia identità. Entro nel seggio e sorrido di più: al vigile nell’atrio della scuola, a chi è in fila davanti a me, a chi lavora al seggio. Sorrido e penso che devo essere felice di poter votare, di esprimere il mio parere. Devo essere consapevole dell’importanza della mia goccia nel mare. Sorrido di più perché nel riconoscermi cittadina vedo una parte della mia dignità personale: non sono solo una mamma, una lavoratrice, una donna, una paziente quando vado in ospedale. Sono un’elettrice, una persona che va al seggio esprimendo un voto per la costruzione del bene comune.

Il giorno delle elezioni è mio nonno che va a votare presto, mia nonna che si fa accompagnare da me in quella che era la mia scuola elementare, mio marito che viene a letto troppo tardi perché aspetta i risultati. È la paura di sbagliare e rendere nullo il mio voto, è la voglia di riconoscersi in un progetto più grande, è una serata nella piazza del municipio a stringere la mano al mio sindaco e a brindare con vino in bicchieri di plastica. È la telefonata con un amico il giorno prima del voto. Perché ultimamente io e lui perdiamo sempre e il lunedì è sempre una giornata troppo difficile per sentirsi. È la bandiera europea che ho comprato e stasera appenderò al balcone.

Allora, buona giornata di elezioni all’amico col nonno comunista come il mio; a Matilde, Ludovica, Lorenzo e ai ragazzi che ho incontrato nelle scuole in queste settimane e che per la prima volta in vita loro voteranno; a chi si candida a Sindaco e alla sua famiglia. A me, che continuo a emozionarmi e a sentire forte quel bisogno di appartenenza che è “avere gli altri dentro di sé”

una coperta coi buchi

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Ho una coperta di lana sul divano, di quelle che si usavano una volta, fatta con tutti gli avanzi della lana comprata per fare le maglie con i ferri. Mia mamma faceva le maglie a noi figlie (se ci ripenso alcune erano veramente inguardabili, scusami mamma, ma bisogna ammettere le proprie turbe d’infanzia) e mia nonna raccoglieva i gomitoli iniziati e faceva le coperte, che poi distribuiva a tutta la famiglia. Ne ho una anche io, che uso sul divano quando guardo la tv o leggo o mi addormento. Nessun’altro la vuole usare, perché punge un po’ e i ragazzi di oggi sono abituati alle coperte di pile, regolari come una colata di asfalto.

Io invece trovo che quei punti stretti l’uno all’altro, sappiano sviluppare un calore che arriva fin dentro il mio corpo, supera la pelle e gli strati superficiali per accomodarsi proprio negli angolo più nascosti dei mie organi interni. Quei colori diversi, quegli spessori irregolari si adattano alle pieghe del mio corpo, alla curva delle gambe rannicchiate, alla schiena appoggiata al divano, alle braccia che spuntano lo stretto necessario a tenere in mano il libro. I nodi che uniscono un settore a un altro spuntano un po’, creano degli inciampi alle dita che accarezzano la superficie, sono spunto per i miei figli per giocare con le mani mentre guardano la tv.

La mia coperta ha iniziato da un po’ di tempo ad avere dei buchi, prima piccolini, causati probabilmente dai figli che giocavano con i nodi, poi sempre più grandi e allora ho pensato che forse in casa ci sono le camole. Ho provato a riannodarli, a stringere di nuovo le maglie una all’altra, ma manca qualcosa e il rattoppo non tiene. Perché probabilmente manca il materiale, manca la lana, quella che avanzava mia mamma e riutilizzava mia nonna. O forse mancano i ferri, la capacità di usare quegli strumenti che trasformano fili singoli in una trama resistente.

Oggi ho chiacchierato con un’amica, su un suo progetto sul territorio in cui viviamo entrambe. E ho pensato alla mia coperta e ai suoi buchi. Ho pensato che questa amica sta cercando i ferri che sappiano trasformare la lana e riuscire a rattoppare i buchi sociali che ci lasciano vicini ma da soli, distanti l’uno dall’altro non così tanto, ma in quella misura sufficiente a non permetterci di sviluppare calore. I miei nonni sapevano usare gli strumenti e trovare quella lana nella loro esperienza che aveva trasformato il modo di vivere la vita, il lavoro, la famiglia, la passione politica ed educativa. I miei genitori l’hanno identificata da ragazzi nelle assemblee e negli scontri di piazza per costruire una scuola diversa, in cui anche gli studenti potessero essere protagonisti, o in una dignità tutta da costruire a mille km dal posto in cui sei nato, in una città che per diffidenza ti tiene distante e a cui devi dimostrare tutto, da adulti nelle scuole mia e di mia sorella in cui mettevano le loro ore libere e le loro competenze professionali per costruire insieme alle maestre stimoli e occasioni per tutti noi bambini. La coperta era ancora intera, aveva qualche maglia un po’ più larga, qualche nodo di troppo. Ma stava insieme e il calore era costante e condiviso tra tutti.

Adesso abbiamo una coperta bucata e non sappiamo dove trovare la lana e quali debbano i ferri da usare, rinchiusi nel nostro guscio, agguerriti non più per conquistarci un posto al sole ma per mantenere la nostra posizione. Tutti infreddoliti e incapaci di vedere che solo se costruiamo nuove maglie, nuovi punti con colori e spessori diversi l’uno dall’altro, possiamo riparare i buchi e avere di nuovo il calore di cui abbiamo bisogno per continuare a sentirci persone.

il prima e il poi (l’io e il noi)

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Nota: il post è da leggere ascoltando una canzone di Gaber (a caso); se non sapete quale scegliere suggerisco questa “La parola io“.

Prima c’è il diritto, quello di livello alto, “costituzionale”, inalienabile, inappellabile, insuperabile (come il tonno).
Poi c’è la scelta di vivere in una comunità e di accettarne le regole di comportamento, le prassi, i principi morali.

Prima c’è la patria potestà, che poi si potrebbe anche dire “e qui comando io, e questa è casa mia”, con la non sottile differenza che il qui è un figlio e la casa è qualsiasi posto egli frequenti, dalla scuola al campo di basket, dall’oratorio al corso di inglese, dall’estate ragazzi al campo scout.
Poi c’è la scelta di delegare un pezzo della propria patria potestà ad altri (gli insegnanti, gli allenatori, gli animatori, i capi scout) perché in ogni ambito che nostro figlio frequenta ci sia qualcuno che definisce regole per un gruppo (e non solo per lui) con lo scopo di costruire insieme il bene comune.

Prima ci sono i principi, su cui non si può transigere, che non vanno mai messi in discussione, che pretendono guerre sante e nuove crociate per affermarli, oltre ogni ragionevolezza. Che parlano spesso di forma, quelli per cui “il fine giustifica i mezzi”.
Poi ci sono i valori, quelli che non dovrebbero essere negoziabili, quello che richiedono umanità ed empatia per essere affermati e diffusi, come un contagio positivo che ci lascia più umani e interi. Che parlano di contenuti, quelli per cui non puoi distinguere tra fini e mezzi, è un tutt’uno.

Prima ci sono io.
Poi ci siamo noi.

Per adesso siamo nel prima. Impantanati in questa libertà che possiamo anche tradurre con “facciamo il cazzo che ci pare”. Barricati dietro la patria potestà che diventa “tu a mio figlio non puoi dire niente, solo io lo posso educare”. Armati di principi (e questioni di principio) che ci impediscono di avere mani, mente e cuore libero per parlare e confrontarci sui valori, sulla senso di comunità e solidarietà, sulla costruzione e responsabilità verso il bene comune. Sull’io, prima persona singolare, che non ammette il plurale.

Forse arriveremo al poi (e al noi), ma stasera non vedo la strada.

passione educativa

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Loro sono istintivi e impulsivi. Hanno la mente sveglia e la lingua pronta, ancora più rapida dei loro pensieri a volte. Devono rispondere a delle urgenze interne che li spingono a prendere posizione su ogni cosa sulla base dei movimenti della loro pancia, dei sussulti del loro cuore, dei ronzii che circolano intorno alle loro orecchie.

Noi dovremmo essere capaci di apprezzare la loro voglia di partecipare al mondo, di esprimere un parere, di entrare nelle questioni mettendoci la faccia e la voce. Ma anche di fornire strumenti per mettere in relazione la pancia e il cervello, il cuore e la razionalità, le orecchie e la propria coscienza.

Loro sono estremi: tutto si pone ai margini di una scala di misurazione, nei territori del bianco abbagliante o del nero più cupo. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono considerazioni su situazioni e frangenti diversi.

Noi dovremmo imparare dalla loro incapacità di prendere in considerazione il compromesso come possibilità, così forse smetterebbe di essere una prassi consolidata nelle nostre prese di posizione quotidiane. Ma anche aiutarli a togliere il paraocchi che gli fa  vedere solo una parte della questione e allenarli a indagare il tutto, considerando il contesto, provando a immedesimarsi nella situazione, esplorando la gamma infinita dei colori e delle sfumature che compongono lo spettro tra il bianco e il nero e che tutti i giorni abbiamo tutti davanti agli occhi.

Loro sono autonomi, vogliono fare da soli e camminare con le proprie gambe. Chiedono finestre per affacciarsi verso il mondo, strumenti per aprirsi verso una socialità ampia, che vada oltre i confini del condominio in cui vivono o della scuola che frequentano. Sono impavidi e fiduciosi che sapranno gestire i rischi, affrontare i pericoli e risolvere ogni situazione. Come nelle favole, dove l’eroe esce sempre vittorioso.

Noi dovremmo essere incantati di fronte all’ottimismo naturale che hanno nei confronti del mondo e all’autostima ancora tutta intatta, quella che gli fa pensare che hanno tutte le carte in regola per farcela, quella che le esperienze e i nostri cattivi insegnamenti intaccheranno irrimediabilmente. Ma dovremmo anche fornirgli il vocabolario per tradurre i messaggi che il mondo gli lancia addosso, la grammatica per conoscerne le regole, la bussola per sapersi orientare e ritrovare la propria strada. Dovremmo lasciarli andare ma tenere la porta aperta, perché sappiano sempre di poter tornare in casa a chiedere consigli, a trovare orecchie che li sappiano ascoltare e parole che sappiano aiutarli a interpretare ciò che vedono e ciò che provano, a trovare una mano tesa perché la possano stringere.

La famiglia cresce in età e i percorsi cambiano, ognuno gioca nel proprio ruolo di adolescente o di adulto e per la buona riuscita del gioco non può dimenticarsi di quello che è. Gli interrogativi diventano più grandi e mi coinvolgono direttamente perché per provare a trovare delle risposte possibili devo scavare dentro quello che sono, nei valori che fondano il mio essere e spingono il mio agire. La passione educativa è sempre lì, in agguato dentro di me, ogni volta che un ragazzo gravita attorno alla mia vita. Perché vederlo esplorare se stesso e il mondo è estremamente affascinante.

ritenta, sarai più fortunato

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Quando ero piccola c’erano i cicles (nota del traduttore: gomme da masticare, come le chiamano tutti quelli che vivono fuori Torino) che ti facevano vincere un premio. Toglievi la carta con la trepidazione tipica dei grandi momenti e speravi di leggere “Hai vinto”. Non succedeva quasi mai, o almeno io non ricordo sia mai successo a me. Però quello era comunque un mondo gentile, che ancora lasciava un barlume di speranza e in quell’involucro trovavi uno stimolo ad andare avanti “Ritenta, sarai più fortunato”. Della serie, nulla è perduto, hai ancora un’altra possibilità.

Come i figli degli anni 80, convinti che nei Big Babol ci sia il grasso dei topi, ma assuefatti dal loro aroma chimico indimenticabile, la nostra democrazia affronta il mondo con la stessa leggerezza con cui noi scartavamo i cicles. Promuovi un referendum per uscire dall’Europa e poi ci ripensi e vorresti trovare proprio quella carta lì: ritenta, promuovine un altro, in fondo abbiamo scherzato e c’è sempre un’altra occasione.

In una festa estiva un ragazzo si tuffa in piscina anche se non sa nuotare e quando si sbraccia per attirare l’attenzione degli altri nel disperato tentativo di salvarsi, gli amici credono che stia scherzando e non intervengono. E lui muore. La prossima volta magari non si butterà in piscina , la prossima volta magari gli amici a bordo vasca rideranno solo dopo essersi assicurati che non stia chiedendo veramente aiuto. Ritenta, sarai più fortunato.

In un isolato con una scuola media aprono non uno, ma ben due centri scommesse sportive e sala slot. E i ragazzi che escono da scuola passano di fianco ad adulti che bivaccano lì davanti a qualsiasi ora del giorno, fumando, parlando di pronostici di partite, vivendo costantemente nella speranza (che forse ormai è certezza) che la prossima sarà la volta buona. E che la vita si trasforma così, con una puntata giusta, con una combinazione azzeccata di simboli.

Viviamo immersi in un’eterna immaturità. Potremmo chiamarla adolescenza, ma non sarebbe corretto. Non nei confronti di quelli che adolescenti lo sono per età anagrafica, giustificati nei propri dubbi e nel proprio senso di onnipotenza dalla scarsa abitudine all’insuccesso, dall’inesperienza, dall’affacciarsi solo da poco nel mondo delle scelte e delle porte che si aprono, ma poi si chiudono. E se noi, che dovremmo aver superato quella fase, siamo convinti di avere in mano il passe-partout che ci permetterà di riaprirle infinite volte quelle stesse porte, nessuno andrà lontano. Nè gli adolescenti veri, né quelli di ritorno.

E nel caso tu possa ritentare, sbatterai di nuovo il naso.

lettera aperta al sindaco (in attesa di risposta)

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La distanza delle istituzioni da cittadini mi fa innervosire, mi irrita e mi “scioglie” la lingua. L’arroganza del potere mi rende polemica, più del solito. E in questi casi, come dice mio marito, meglio avermi come amica che come nemica.

Buongiorno sindaco,
sono una cittadina di Torino e ho seguito tutta la vicenda delle contestazioni allo stadio Filadelfia che le sono state rivolte da un gruppo di tifosi.
Ho seguito le notizie da domenica sera e mi sono rincuorata quando ho letto la sua smentita rispetto all’aver rivolto ai tifosi quel gesto volgare e offensivo. Ho letto poi lunedì mattina che invece quel gesto l’aveva fatto ed era testimoniato da un video pubblicato sulla rete. Ho letto le sue successive “spiegazioni” e anche che non ha intenzione di chiedere scusa a chi l’ha insultato.
Credo lei debba chiedere scusa a me come cittadina di Torino, di cui lei è il rappresentante istituzionale. E mi deve chiedere scusa perché nel suo ruolo non si può in alcun modo permettere di scendere al livello piccolo e volgare di chi l’ha contestato. Non sto giustificando le contestazioni, ma un sindaco non può rispondere con lo stesso linguaggio, perché in quel momento non è un privato cittadino (era lì nella sua veste ufficiale, se non sbaglio) e perché da una persona che assume una carica pubblica di quell’importanza io elettore pretendo che sappia gestire anche situazioni di tensione in maniera equilibrata, istituzionale, corretta.
Deve chiedermi scusa perché domenica non si è dimostrato all’altezza del suo ruolo, ruolo che gli elettori di questa città le hanno dato. E’ a noi cittadini che deve rispondere, a nessun altro: come rappresentate di tutti i cittadini di Torino deve comportarsi in maniera irreprensibile. E nel caso abbia commesso un errore, pur in situazioni difficili, ha il dovere di chiedere scusa e porre rimedio all’errore.
Non pretendo la perfezione (anche se da un uomo politico con una certa esperienza mi aspetto che sappia gestire e affrontare con dignità le contestazioni e i momenti di tensione), ma la correttezza e la trasparenza si. Nell’ordine: prima ha sbagliato, poi ha mentito (dichiarando ai giornali di non aver fatto alcun gesto volgare ai tifosi), poi si è giustificato e ha liquidato la questione, con un atteggiamento che a me è suonato arrogante, tipico di chi pensa che la visibilità pubblica garantisca potere e impunità. E invece no, la visibilità pubblica dovrebbe farle sentire sulle spalle tutto il peso della responsabilità di essere il rappresentante di una moltitudine di cittadini che si aspetta di veder rappresentati da lei i valori e i comportamenti più alti e nobili. Non i bassi istinti che possono esserci nel nostro animo, ma che cerchiamo e sappiamo tenere a freno.
Buona giornata e buon lavoro.

perché

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Perché la libertà spesso non ci viene tolta tutto di un colpo, ma pezzettino dopo pezzettino, con tante motivazioni che sembrano più delle “scuse”: è per il nostro bene, per la nostra sicurezza, per una politica che possa prendere decisioni più rapide e immediatamente applicabili.

Perché da esseri umani non possiamo giustificare politiche o scelte che facciano distinzioni tra le persone, che definiscano gradi diversi di diritto a seconda del paese di provenienza, della situazione economica, della religione o delle preferenze sessuali. Perché la nostra felicità si costruisce solo insieme a quella degli altri, perché “nessuno si salva da solo”

Perché se è vero che non tutto è bianco o nero, che la ragione non sta solo da una parte e che è difficile giudicare le scelte altrui quando non ci si trova nella specifica situazione, è altrettanto vero che arriva un momento in cui la nostra coscienza ha ben chiaro qual è la cosa giusta da fare e quale quella sbagliata, quale scelta ci porta dalla parte della verità e quale dalla parte dell’ingiustizia, della sopraffazione, del sopruso verso gli altri. Quella linea, oltre la quale non possiamo più sentirci incolpevoli, esiste e se ascoltiamo davvero la nostra coscienza tutti la sappiamo riconoscere. A quel punto siamo responsabili della posizione in cui siamo.

Perché l’eroismo non è sovraumano, come ci insegna Calvino, ma qualcosa alla portata di ciascuno di noi. E’ fatto di scelte, di piccoli e singoli passi che ci portano su una strada o su un’altra. Che ci portano “Oltre il ponte“.

Perché di persone che hanno scelto di resistere, di non chinare la testa è piena la nostra storia nazionale e la nostra vita personale.

Per questo, a 69 anni di distanza bisogna continuare a festeggiare il 25 aprile, quando i partigiani hanno liberato l’Italia.

meglio non guardare

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C’è chi ha scelto un simbolo che già negli anni 80 sarebbe stato datato, ma c’è il Monviso, è rosso, insomma tutto torna. C’è chi parla di onestà e trasparenza e infatti la foto della candidata in questione è come coperta da un velo, un vedo non vedo che non capisci se sia l’errore di un tipografo distratto o un effetto voluto (in nome della trasparenza di cui sopra). Chi utilizza slogan ad effetto degni dei saldi di un discount ed esplora le varianti cromatiche di un solo colore, come se fosse una mazzetta Pantone. Chi sceglie una foto ispirata, sguardo verso l’orizzonte (che può, a seconda del soggetto fotografato, aprirsi sulla Madonna o sul sol dell’avvenire).
E poi anche chi, nell’incertezza, il simbolo del partito ancora non l’ha messo. Dicono porti male!
Possibile che i manifesti elettorali siano il compito a casa delle peggiori agenzie di comunicazione?

compagni dai campi e dalle officine

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In questa squallida vicenda lavorativa ho incontrato il sindacato, per la prima volta. Ho deciso di incontrarlo, di affidarmi a loro per farmi tutelare anche se tutti i colleghi hanno scelto strade diverse, perché il sindacato sa di polveroso, di lotta di classe, di anni 80 e di infanzia, soprattutto abitando di fronte alla Fabbrica Italiana Automobili Torino (si, la F.C.A.).

Ho incontrato persone semplici, nel senso migliore del termine, che non si vestono di parole e di sapienza, che mi hanno fatto sentire dalla parte della ragione senza farmi sentire stupida per non essermi accorta di cosa succedeva. Ho incontrato un sindacalista con l’orecchino che mi ha dato subito del tu, perché tra “compagni” ci si da del tu, con i manifesti del Toro attaccati a fianco delle frasi di Di Vittorio, sull’armadio con le porte che si chiudono male. Ho incontrato un’avvocato che sarà stata più giovane di me, che mi ha chiamata signora e ha scherzato sui miei tre figli e sul suo “vivere nel peccato”, che aveva la gonna colorata che avrei messo anche io e che prendeva appunti sul foglio di recupero stampato sul retro, in uno studio che vedevi per intero ruotando la testa di 180 gradi.

Ecco, credo che il sindacato abbia bisogno di entrambe le cose: del metalmeccanico che ha ancora nel dna la lotta di classe e dell’avvocato giovane, che crede che un altro mondo sia possibile, che un altro modo di fare profitto sia realizzabile. E’ unendo queste due anime che possiamo andare avanti e costruirlo a partire da oggi questo mondo possibile, reale, vivo e vitale.