siamo entrati nel tunnel

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Eravamo sfuggiti fino a ora, scivolando tra un contatto stretto e l’altro, driblando compagni, colleghi, amici, vicini di casa, parenti. Avevamo passato indenni il 2020 e contavamo che il 2021 si aprisse con fiducia, speranza e buoni auspici. E invece febbraio ci ha sedotti e poi abbandonati. Illusi da un tampone negativo della figlia di mezzo eravamo convinti che la fortuna fosse dalla nostra parte e invece è caduto sul campo il figlio grande, risultato positivo il 2 febbraio, un giorno dopo la buona notizia di sua sorella. E così sperimentiamo anche noi l’isolamento di un membro della famiglia per ogni momento della giornata (dormire_mangiare_studiare_lavarsi_oziare_guardarelatv_leggere), passiamo alcol sulle maniglie delle porte, riceviamo il pane e il latte grazie a parenti che ce lo depositano nell’ascensore, siamo ripiombati nella didattica a distanza e nello smart working totale (e totalizzante) e i referenti dell’asl sono ormai i nostri migliori amici (ci chiamano un paio di volte al giorno).

Sì, mio figlio grande è positivo e ho anche cercato per qualche giorno di ricostruire la catena del contagio, ma non ne sono stata capace e in ogni caso (come ha sempre detto mio marito) è un esercizio inutile e dannoso. Perché l’unica cosa vera è che è stato contagiato perché vive in una società. Va a scuola (solo da due settimane, 6 giorni effettivi di didattica in presenza), come io vado a lavoro. Prende i mezzi pubblici, come li prendo io. Scambia due parole con i compagni di classe o con gli amici all’aperto, come faccio io con mia sorella sotto casa o con la mia collega mentre andiamo a ritirare il pranzo d’asporto. Fa sport distanziato e all’aperto, come lo faccio io quando vado a correre la domenica pomeriggio nel parco. Vive una vita che definire normale non si può, ma di cui aveva iniziato ad assaporare giorno per giorno ogni singola riconquista: la scuola in presenza, la ripresa dello sport (non ancora col contatto), le attività scout, un pomeriggio con un’amica.

Non c’è colpa nell’essere contagiato, perché ha fatto (come me) tutte le attenzioni necessarie: ha indossato la mascherina sempre, ha tenuto le distanze, ha rinunciato a feste, pranzi, partite di basket al campetto. Perché se fosse così difficile beccarsi sto virus, credete che ci sarebbero tutti questi contagi? Chi cerca nei contagiati il comportamento scorretto in fondo sta dicendo che “se la sono cercata” (quindi sono dei cretini) e a lui o lei non potrà mai capitare.

Mio figlio quasi 17enne è positivo, ma non ho mai avuto paura che lui portasse il virus in casa (come non ho paura che lo porti sua sorella 14enne o suo fratello di 10 anni). Perché tutti possiamo portarlo, perché tutti siamo tornati a fare le attività che sono consentite e per questa scelta non abbiamo alcun rammarico. Mio figlio quasi 17enne è positivo e mi sto tenendo distante da lui adesso, perché cedere alla voglia di abbracciarlo e dargli un bacio prima di andare a dormire sarebbe irresponsabile nei confronti degli altri due figli che sono bloccati in casa in quarantena. Ma non l’ho mai tenuto distante prima, l’ho abbracciato e baciato (solo quando me lo ha concesso), ho bevuto a volte nello stesso bicchiere suo e ho condiviso la normale vita di una famiglia. Gli ho ricordato di lavarsi le mani quando rientrava a casa, ma non l’ho ossessionato. Perché se avessi avuto paura di mio figlio avrei dovuto avere paura del mondo e di me stessa per prima, perché ognuno di noi può essere vettore, anche inconsapevolmente e senza responsabilità. E il problema non è eventualmente chi può contagiare nonni, ma il fatto stesso che i nonni possano essere contagiati (prima nota: la nonna 71enne è stata contagiata, negli stessi giorni del nipote e chissà chi dei due è stato vettore per l’altro; seconda nota: i miei figli hanno continuato a vedere i nonni in questi mesi, perché i nonni avevano bisogno del contatto con i nipoti per restare sani).

Mio figlio quasi 17enne è positivo al covid e noi 5 siamo tutti insieme sulla stessa barca, o meglio nella stessa casa. Il rischio zero nella vita non esiste e anche esistesse credo che quella non sarebbe la vita che vorrei vivere e che proporrei ai miei ragazzi. Mangiamo in posti diversi collegati con FaceTime e ci fanno ridere sempre le stesse cose: le battute cretine, i rutti, le prese in giro. Usciremo dal tunnel insieme, perché vivere distanti non è vivere.

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Ci sono quelli che non riescono a guardarti negli occhi mentre ti parlano tanto sono timidi e poi sfoggiano capelli dai colori e dai tagli improbabili, quanti sfrontati.

Ci sono quelli che sembrano acque tranquille e poi basta una domanda per trasformarli in torrenti saltellanti e carichi di spinta.

Ci sono quelli che contestano ogni cosa e sono quasi sempre polemici, ma poi sono sereni e allegri, capaci di esprimere la loro opinione e consapevoli del fatto che hanno dei talenti, magari non sanno bene quali siano ma sanno che prima o poi verranno fuori.

Ci sono quelli che dicono sempre “scusa” e “grazie infinite” e temono che qualcuno si offenda o si possa sentire discriminato per ogni loro pensiero e allora non lo esprimono. Il loro corpo, i loro movimenti nello spazio, i loro occhi e le loro parole raccontano una sofferenza enorme, troppo grande per quei 17 anni, troppo totale per non soffocare tutta la vita che hanno davanti.

Ci sono quelli che non vanno più a scuola, che vedi fumare dalla finestra di camera loro che si affaccia sul tuo stesso cortile, che riempiono con i propri amici l’ascensore e sbattono i loro corpi contro le pareti e le porte, rischiando di romperle. E tu corri per 8 piani di scale per arrivare in tempo a trovarli nell’androne, per dirgli che essere maleducati non è rivoluzionario, essere menefreghisti non è figo, rovinare le cose comuni è stupido. E per fissare i tuoi occhi nei suoi, perché lui si ricordi che chi sta parlando è qualcuno che l’ha visto alle recite della scuola materna, alle uscite scout, agli allenamenti di calcio. Qualcuno che gli vuole bene e non può accettare di stare in silenzio quando lo vede sprecare la sua vita.

Ci sono quelli che si agitano per l’esame di terza media e ripetono lo schema che hanno preparato alla nonna e non vogliono adulti ad ascoltare, solo i loro amici. E poi quando l’esame è finito, escono felici e saltellanti da scuola, parlando a ruota libera, finalmente sorridendo.

Ci sono loro, le ragazze e i ragazzi che stanno affrontando la vita che si srotola davanti ai loro occhi. E poi ci siamo noi, gli adulti, le donne e gli uomini che cercano un passo sufficientemente stabile, per dar loro sicurezza, e leggero, per entrare nella loro vita in punta di piedi.

Non so quale sia il compito più difficile, se il loro o il nostro. So che tutti e due sono indispensabili.

di porte aperte e firme sui gradini

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Puoi chiudere le porte dopo che qualcuno se n’è andato. Puoi lasciare lì dentro gli oggetti a trattenere il dolore, i brutti ricordi e la fatica. Puoi lasciare che la polvere si accumuli sulla memoria, rendendola opaca e ferma, tagliarle le gambe e lasciarla senza fiato. Una memoria che non dice più niente a nessuno, un mausoleo che incute timore e non insegna niente.

Ma puoi scegliere di fare altro.

Dare aria alle stanze, fare uscire i ricordi perché vadano in giro a incontrare la vita che continua. Puoi distribuire gli oggetti, perché ciascuno abbia qualcosa, un segno delle esperienze passate insieme. Puoi aprire le porte, vivere quegli spazi con gli altri, dare voce alle emozioni, alle immagini che tornano alla memoria. Ridere e piangere, sentire la tristezza e continuare ad amare la vita.

In questa casa c’è una porta chiusa, invalicabile. E c’è anche una firma su un gradino di cemento, che d’estate calpesto decine di volte al giorno. E più lo calpesto e più quel nome mi resta dentro e mi parla di cura, di passione, di capacità manuali e di amore.

quando l’acqua tocca il culo

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16 anni fa, quando in Piemonte c’è stata l’alluvione che ha coinvolto la val Chisone, io ero lì, nel cuore della val Chisone con tutto il gruppo scout. Ci siamo svegliati la domenica mattina con le notizie di mezza valle bloccata e noi eravamo dall’altra parte del fiume, con 80 ragazzi tra gli 8 e i 19 anni, con il pranzo al sacco e senza nulla per cena o per colazione, con il fiume che si vedeva sempre più grosso dal campo di gioco di fronte alla casa. Quando parte del ponte che ci avrebbe portato verso la strada è crollato, quando siamo rimasti bloccati tra due frane, una a monte e una a valle, che impedivano a chiunque di venirci a prendere, ci siamo organizzati, abbiamo diviso i panini, abbiamo fatto il giro delle case del paesino in cui eravamo chiedendo dei dadi, patate, pastina per fare la minestra ai ragazzi, formaggio e pane. Abbiamo spostato tutti a dormire all’ultimo piano e abbiamo fatto i turni di notte, noi capi, per controllare che quel fiume che si ingrossava sempre di più non arrivasse a bussarci alla porta. Abbiamo parlato coi carabinieri che ci hanno detto “vegliate e se succede qualcosa ci vediamo questa notte”. Quando due giorni dopo è smesso di piovere e le case del paese avevano il fango nei piani bassi, nelle cantine e nei garage i ragazzi più grandi ci hanno detto che volevano andare a liberarle dal fango. È stato naturale, nessuno gliel’ha suggerito, è stato un gesto spontaneo di vicinanza più che di solidarietà. Eravamo lì, tutti nella stessa situazione e la cosa normale da fare era aiutarsi, non perché il giorno prima ci avevano regalato 3 dadi da brodo e 5 patate, ma perché non potevamo restare a guardare quando di fianco a noi qualcuno aveva bisogno.

6 anni prima tanti di quei capi erano andati ad Alba, a spalare fango quando il Tanaro aveva invaso il paese, le fabbriche, le case. Io non c’ero e ancora me ne pento. E tanti dopo sono andati in molti altri posti, chiamati non dalle tragedie ma dalla propria scelta di essere buoni cittadini.

Quando pochi mesi fa abbiamo visto in tv le immagini dell’ultima alluvione in Piemonte, Jacopo ci ha detto “sarebbe bello andare ad aiutare in quelle situazioni”. Nel mio estremismo, credo che dovrebbe essere obbligatorio per tutti dedicare una settimana nella propria vita ad aiutare dopo un terremoto, un’alluvione, una frana. Un qualsiasi evento in cui ciò che stai cercando di portare in salvo o di riportare alla normalità è tuo, ma al tempo stesso non è tuo: non è la tua casa o il tuo negozio o il tuo amico, ma è la tua dignità di essere umano. Che non si volta dall’altra parte, che non cerca colpevoli, che non prega e basta o manda sms solidali: si tira su le maniche e sorride e canta anche nelle difficoltà, trova energie che sembrano inesauribili e si prende cura del mondo che ha intorno. E cerca di lasciarlo un po’ migliore di come l’ha trovato, un po’ più umano. Non è bontà, è scegliere, sentire di essere persone per bene. Mia nonna dice spesso “quando l’acqua tocca il culo si impara a nuotare”: dovremmo tutti tenere il culo un po’ più a bagno, per ricordarci che sappiamo nuotare e non solo stare a galla.

nella mia tasca

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Nella mia tasca ci sono le caramelle che nostra figlia Lucia ha vinto alla festa dell’oratorio e non ha mangiato, ma mi ha chiesto di conservarle, perché sa che i regali e i premi sono cose preziose, che non arrivano tutti i giorni, ma solo dopo l’impegno, la fatica, la perseveranza. E che bisogna imparare ad assaporarle e a godersele piano piano.

Nella mia tasca ci sono i gormiti che nostro figlio Diego prendeva all’ultimo momento in camera prima di andare alla scuola materna, amuleti che sapevano di sicurezza, chiavi magiche che permettevano di attraversare le porte del mondo e di riaprire sempre quella di casa. Adesso non li prende più, perché crescendo ha imparato che la porta di casa è come quelle di sicurezza: basta che ti appoggi alla maniglia e la porta si spalanca, per entrare o per uscire, che il dentro e il fuori hanno senso solo se si sanno parlare.

Nella mia tasca ci sono i biglietti che nostro figlio Jacopo si attacca sulla wii per ricordarsi di comprare il latte, di prendere le chiavi di casa, di comprare il pane. Perché se nella natura degli adolescenti c’è la dimenticanza, in quella dei genitori c’è la perseveranza e l’aiuto a cercare strade per crescere e diventare responsabili. E la disponibilità a offrire sempre un’altra occasione, per fare bene, per imparare, per diventare ragazzi.

Nella mia tasca ci sono i biglietti dei musei e delle mostre visitate tutti insieme in vacanza, adesso che finalmente siamo diventati tutti abbastanza grandi per poter vivere nuove città e immergerci in altre culture. Ci sono i biglietti dei film visti in due, nei cinema dove la programmazione non insegue gli effetti speciali, perché anche nella scelta dei film continuiamo a rimanere due persone che amano la vita quotidiana, senza i lampi e i bagliori di fuochi d’artificio o di guerre e tragedie in corso. Ci sono gli scontrini dei ristoranti, perché mangiare insieme è sempre qualcosa che facciamo volentieri, un linguaggio intimo e personale che racconta la nostra strada, le nostre fatiche e i nostri successi.

Nella mia tasca c’è la tua mano che stringe la mia, che mi da forza e sostegno ogni volta che ne ho bisogno, che mi lascia libera di fare e di sognare, che mi spinge a continuare a camminare. Nella mia tasca c’è la nostra scelta di andare insieme nel mondo, di aprirci agli altri e costruire in due un pezzo di strada. La accarezzo sempre, ogni giorno, quella scelta e sono convinta che sia la cosa più preziosa e forte che io abbia saputo fare. Quella da cui non tornerei mai indietro. Buon anniversario capo.

il cibo rende felici (anche quello avanzato)

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Ieri, davanti alla scuola elementare, sento il dialogo tra padre e figlio che riporto fedelmente qui sotto.

Padre – Hai mangiato oggi? –
Il figlio risponde qualcosa che non sento bene, ma è una risposta incerta, di quelle che servono a prendere tempo accampando varie scuse.
Padre – Così non va bene, anche ieri non hai mangiato. Ieri sera ti abbiamo chiesto cosa volevi mangiare. Guarda che vado a ritirare il foglio in segreteria e torni a mangiare alla mensa scolastica –

Qui si apre la necessità dei sottotitoli per i lettori che non hanno figli alle scuole elementari o medie, che non abitano a Torino o provincia, che sono felicemente ignari circa la questione delle mense scolastiche.

Da quest’anno i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie potranno non essere iscritti alla mensa scolastica fornita dal comune e portarsi il pasto da casa. Ancora non si capisce bene come potranno consumarlo, dove, come sarà conservato e di chi sarà la responsabilità di controllare che non ci siano scambi di alimenti. Le scuole, oltre a doversi occupare di supplenti non ancora nominati, cattedre vacanti e strutture scolastiche non sempre idonee, si stanno occupando di trovare una quadra tra il “diritto al pasto da casa” e il valore educativo della condivisione dello stesso pasto per bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni. I genitori si dividono in fazioni, tra chi indossa l’armatura per combattere la battaglia del panino, vissuta come un diritto inalienabile dell’uomo sancito dalla costituzione, dalle nazioni unite e forse anche dalla legge cosmica, chi per nulla al mondo farebbe rinunciare al figlio al momento educativo del pranzo in mensa, chi riconosce il momento educativo ma “a scuola non mi mangia niente, invece a casa mangia di tutto. Beh, certo a parte le verdure…” .

Io sono della seconda specie, anche un po’ estrema. Io sono di quelle che quando organizza il pigiama party con le amiche della figlia di mezzo fa valere la stessa regola che vige tutti i giorni a casa: per colazione si finiscono i biscotti aperti, se non li mangi vuol dire che non hai fame. Io sono della specie per cui quando al centro estivo in cui lavoravo un bambino ha buttato un’albicocca dopo aver dato un morso perché era un po’ aspra, l’ho raccolta dal cestino, l’ho lavata e gliel’ho ridata da finire.

Quando ho sentito l’edificante dialogo tra padre e figlio sono stata felice. Perché l’educazione non è una gara dei cento metri piani, ma una maratona. E se oggi cedi ai capricci del figlio e gli cucini ogni sera quello che vuole, al traguardo dei 42 km non ci arriverai. E non ci arriverà neanche lui.

Vado a mangiare gli avanzi di ieri sera, mentre Diego per la prima volta affronta il refettorio della scuola elementare, il vassoio da prendere, i compagni di fianco a cui sedersi, il cibo della mensa.
Buon appetito ragazzo, aspetto questa sera per sentire i tuoi racconti.

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Un anno fa eravamo a Nizza. Una gita fuori confine, partendo dalla casa del mare dei nonni, con tutti e 4 i nonni. Una vacanza per festeggiare la normalità riconquistata dopo un anno difficile. Una passeggiata fatta a diverse velocità: quella dei ragazzi che correvano su e giù lungo le strade, quella del nonno che muoveva passi incerti ma finalmente autonomi, quella dell’altro nonno che gode dei posti ascoltando i rumori, sentendo l’aria calda o fredda, toccando la mano di chi lo sta accompagnando. Quella delle nonne infaticabili accompagnatrici di ogni età.

E la mia velocità, divisa tra l’essere madre e l’essere figlia, concentrata in questo tentativo di tenere insieme esigenze così diverse, impegnata a vivere tutti insieme una bella giornata. Io che corro coi ragazzi e poi rallento impercettibilmente il passo per non far rimanere troppo indietro i miei genitori e i miei suoceri.

Stamattina vedo i video di Nizza, della gente che scappa spingendo il passeggino e penso che il dolore più grande che provo in questo momento è che se fosse successo un anno fa, mentre ero lì con la mia famiglia, non avrei saputo cosa fare: prendere in braccio mio figlio piccolo e correre a perdifiato o aspettare mio padre? Dare il braccio a mio suocero o stringere forte la mano di Lucia? Non ho paura per me, penso che quando non ci sarò più semplicemente non ci sarò. Ho paura di non poter proteggere chi amo, ho paura di non bastare e di dover scegliere in una situazione in cui non vorrei farlo.

Vi abbraccio amici francesi, vi abbraccio qualunque scelta abbiate fatto che sarà per sempre giusta e per sempre sbagliata.

ritenta, sarai più fortunato

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Quando ero piccola c’erano i cicles (nota del traduttore: gomme da masticare, come le chiamano tutti quelli che vivono fuori Torino) che ti facevano vincere un premio. Toglievi la carta con la trepidazione tipica dei grandi momenti e speravi di leggere “Hai vinto”. Non succedeva quasi mai, o almeno io non ricordo sia mai successo a me. Però quello era comunque un mondo gentile, che ancora lasciava un barlume di speranza e in quell’involucro trovavi uno stimolo ad andare avanti “Ritenta, sarai più fortunato”. Della serie, nulla è perduto, hai ancora un’altra possibilità.

Come i figli degli anni 80, convinti che nei Big Babol ci sia il grasso dei topi, ma assuefatti dal loro aroma chimico indimenticabile, la nostra democrazia affronta il mondo con la stessa leggerezza con cui noi scartavamo i cicles. Promuovi un referendum per uscire dall’Europa e poi ci ripensi e vorresti trovare proprio quella carta lì: ritenta, promuovine un altro, in fondo abbiamo scherzato e c’è sempre un’altra occasione.

In una festa estiva un ragazzo si tuffa in piscina anche se non sa nuotare e quando si sbraccia per attirare l’attenzione degli altri nel disperato tentativo di salvarsi, gli amici credono che stia scherzando e non intervengono. E lui muore. La prossima volta magari non si butterà in piscina , la prossima volta magari gli amici a bordo vasca rideranno solo dopo essersi assicurati che non stia chiedendo veramente aiuto. Ritenta, sarai più fortunato.

In un isolato con una scuola media aprono non uno, ma ben due centri scommesse sportive e sala slot. E i ragazzi che escono da scuola passano di fianco ad adulti che bivaccano lì davanti a qualsiasi ora del giorno, fumando, parlando di pronostici di partite, vivendo costantemente nella speranza (che forse ormai è certezza) che la prossima sarà la volta buona. E che la vita si trasforma così, con una puntata giusta, con una combinazione azzeccata di simboli.

Viviamo immersi in un’eterna immaturità. Potremmo chiamarla adolescenza, ma non sarebbe corretto. Non nei confronti di quelli che adolescenti lo sono per età anagrafica, giustificati nei propri dubbi e nel proprio senso di onnipotenza dalla scarsa abitudine all’insuccesso, dall’inesperienza, dall’affacciarsi solo da poco nel mondo delle scelte e delle porte che si aprono, ma poi si chiudono. E se noi, che dovremmo aver superato quella fase, siamo convinti di avere in mano il passe-partout che ci permetterà di riaprirle infinite volte quelle stesse porte, nessuno andrà lontano. Nè gli adolescenti veri, né quelli di ritorno.

E nel caso tu possa ritentare, sbatterai di nuovo il naso.

scelte insignificanti

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“Il male non ha né profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, perché il pensiero (…) tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s’interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha profondità, e può essere radicale” H. Arendt

Questa mattina, mentre preparavo la colazione, tra il rumore dell’acqua aperta per sciacquare la caffettiera e le orecchie ancora addormentate ho sentito al giornale radio un’intervista, non so a chi, sul giorno della memoria. E, pur nella confusione delle 7 del mattino, mi è rimasta impressa una frase: “Quando si parla di questi eventi si ha la tendenza a immedesimarsi nelle vittime, mai nei carnefici”.

Mi è rimasta incollata in fronte perché nel nostro egocentrismo riteniamo di essere sempre i buoni, perché i cattivi sono molto più cattivi di noi, dei nostri piccoli gesti quotidiani, delle nostre scelte banali. Perché non abbiamo, nella nostra vita quotidiana, la possibilità di essere così fortemente cattivi. Siamo solo “cattivini”, quindi ininfluenti.

Siamo cattivini quando al mercato stringiamo a noi la borsa se di fianco passa uno zingaro, quando diciamo ai nostri figli di star vicini perché ci sono gli zingari che portano via i bambini, quando non lasciamo andare nostra figlia 12enne dalla sede della scuola alla succursale in un percorso di 500 metri perché “è pieno di zingarelli”.

Siamo cattivini quando ci preoccupiamo se nel residence ormai in disuso del quartiere saranno ospitati dei profughi perché potrebbero essere pericolosi per i bambini della scuola materna lì di fianco.

Siamo cattivini quando pensiamo che va bene che i carcerati facciano durante la detenzione dei lavori socialmente utili, ma non ci sembra il caso che puliscano dalle foglie il parco pubblico del quartiere.

Siamo cattivini quando mettiamo su Facebook come immagine del profilo l’icona della manifestazione #svegliaitalia e poi ci giriamo dall’altra parte se vediamo due ragazzi che si tengono per mano sul pullman o si baciano per la strada. O ci auguriamo che nostro figlio non sia gay.

Il male non ha spessore, il male è il gesto più insignificante di tutti i giorni. È una scelta piccola, talmente piccola che riesce a insinuarsi nel nostro linguaggio, nel nostro sguardo, nel nostro subconscio. Si nutre di silenzio, di paura, di solitudine. Di banalità, di cui ciascuno di noi è pieno.

Nella foto, Campo del Ghetto Nuovo a Venezia.

dove porre l’asticella?

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Ognuno di noi è diverso, come persona e quindi come genitore ed educatore (perché quello diventiamo automaticamente, competenti o meno, quando mettiamo al mondo un figlio). C’è chi centellina le esperienze e i rischi, convinto che ogni cosa vada dosata e offerta premasticata ai pargoli, e chi taglia buchi nel ghiaccio per buttarci dentro la prole, in un bagno gelido e tonificante che rende forte (o ammazza).

E in questo panorama di ragazzi diversi e di metodi educativi molto distanti tra loro, il resto del mondo che si relazione coi nostri figli deve decidere dove porre l’asticella della propria offerta.

Ho sentito genitori di ragazzi di prima media sdegnati perché i professori li hanno lasciati in giro da soli per un’ora a Rapallo  (“hanno avuto un bel coraggio”, mi dicono mentre aspettiamo il pullman, “si, in effetti è vero, sono contenta che siano così coraggiosi” rispondo con la voce rotta dall’ammirazione per questi educatori, “e se un ragazzo entrava in un sexy shop e chiamavano i carabinieri, di chi era la colpa?”, dice la mamma, preoccupata forse perché consapevole che a Rapallo la percentuale di sexy shop sia ampiamente superiore alla media).

Ho sentito catechiste sostenere di aver difficoltà a far fare esperienze di volontariato ai ragazzi di 11 anni perché non tutte le famiglie vogliono che il catechismo sia occasione di incontro con gli altri e di esperienze di vita comune, ma semplicemente pretendono che i figli imparino delle cose per fare la comunione o la cresima. Come una raccolta punti di quelle del supermercato, come la poesia (o la preghiera) da imparare a memoria e recitare a pappagallo, anziché un’esperienza che li faccia crescere e interrogarsi su cosa vogliono essere, quali valori sono importanti nella loro vita.

Ho sentito genitori lamentarsi per i 3 allenamenti settimanali di basket, perché i ragazzi non avrebbero tempo per fare i compiti e sarebbero troppo impegnati, chiedere di spostare i giorni, gli orari, di abbassare la richiesta da fare ai loro figli.

È sempre una questione di equilibrio, di altezza alla quale mettere l’asticella della propria proposta. È sempre una questione di dialogo, tra l’affermazione dell’obiettivo di un’offerta educativa e le abitudini degli utenti. Non le loro esigenze. Perché se penso alle esigenze dei ragazzi del 2015, di quelli che hanno 5-6-7-8-9-10-11 anni (e ne conosco tanti, ne vedo passare molti nella mia vita quotidiana), ai loro bisogni inespressi  trovo l’autonomia, il senso di responsabilità, la capacità di progettare e di progettarsi, la gestione del tempo, la curiosità e l’ascolto di ciò che è fuori da loro. Il mettersi alla prova per scavalcare un’asticella posta sufficientemente in alto per farli crescere, per sfidarli, per farli diventare il meglio di quello che possono essere. Perché se restano in un nido fatto di abitudine e inerzia, se incontrano insegnanti, catechisti, allenatori ed educatori che non gli offrono più di quello a cui sono abituati, cresceranno come una foglia accartocciata su se stessa, priva di acqua e di luce.

È faticoso mettere l’asticella un po’ più in alto, perché vuol dire avere un sogno, un progetto, un obiettivo e chiarirselo bene in mente. Vuol dire accettare che non a tutti andrà bene la nostra proposta e che qualcuno farà un’altra scelta. Ma avrà scelto e questo, per chi fa l’educatore di mestiere o come volontario, è un obiettivo raggiunto. Anzi l’obiettivo.