pensavo di non aver voglia

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Quest’anno pensavo che non avrei comprato molti regali di Natale perché credevo di non aver voglia di farlo. Una stanchezza enorme, di mesi lunghissimi in casa, di ospedali e terapie, di saluti, di lacrime trattenute, di rabbia per decisioni che non condivido, posizioni che non capisco, comportamenti in cui non mi riconosco mi schiacciava la testa e come gli occhiali sul pullman al mattino si appannano per la mascherina, così si annebbiavano i giorni.

Credevo che non avrei avuto voglia di comprare qualcosa in quei negozi che sono aperti mentre i miei figli sono chiusi in casa a fare lezioni davanti a un computer da fine ottobre.

E invece.

Ho aperto come sempre casa ai folletti degli agnolotti di Natale, che hanno impastato, tirato, riempito, tagliato e confezionato dosi da reggimento che adesso dormono nel mio congelatore perché finché c’è ripieno si tira la pasta.

Ho fatto richieste gastronomiche perché a Natale si mangiano sempre le stesse cose: gli agnolotti, il salmone marinato, le olive all’ascolana, i vol au vent, l’insalata russa, gli spinaci al burro e le patate al forno. Ho dimenticato i cannoli, ma oggi non me la sono sentita di chiederli a mia suocera.

Ho preparato un calendario dell’avvento senza pretese, ma con dolci finalmente goduriosi perché i ragazzi hanno confessato che volevano quello anziché le storie che inventavo ogni anno. E così io mi sono rilassata e loro si sono goduti 24 giorni di schifezze.

E ho comprato regali, tanti e per poche persone, da parte mia e di altri sparsi. Non è che abbiamo bisogno dei pacchetti per sapere che ci vogliamo bene, ma in questo Natale l’unica cosa che conta per me è vedere felice la mia famiglia. Acciaccata, invecchiata, stanca. Ma felice di stare insieme, senza rimpianti e recriminazioni.

Ci mancherà qualcuno, non l’amore. Di quello ne abbiamo avuto in abbondanza anche quest’anno.

letterina a Babbo Natale

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Caro Babbo Natale,

so che ormai il tempo stringe e sarai indaffarato, ma provo lo stesso a scriverti anche perché, più che regali da portare, ti chiederò regali da non togliermi (ed è evidente che questo richiede molto meno sforzo).

Per prima cosa ti chiedo di non togliere dalla mia vita le persone e i luoghi in cui mi riconosco. Sono quei rapporti o quelle situazioni in cui senti che sei proprio a casa, ti sei tolta le scarpe e hai messo la maglia un po’ rovinata addosso, tanto tutti vedono quello che hai dentro. Quando ti riconosci in una persona non serve frequentarsi da decenni, né vedersi tutti i giorni: i corpi si parlano da soli, la pelle vibra all’unisono, l’animo si accende per le stesse cose. Ho trovato diverse persone in cui mi riconosco, quasi tutte donne e questo, per una che ha sempre avuto amici maschi, è una novità. Mi aiutano a non sentirmi un alieno, a trovare uno sguardo di appoggio, ad avere la consapevolezza che sto percorrendo una strada non del tutto sbagliata.

Lasciami anche chi educa insieme con noi i nostri figli, le maestre di Diego, la professoressa di italiano e di musica di Luci, gli allenatori di basket e atletica, i capi scout. Non ho il dono dell’ubiquità e soprattutto ho la consapevolezza di non bastare: a cercare con Diego, Luci e Jacopo tutte le risposte, a soddisfare ogni loro bisogno, ad alimentare ogni giorno la loro curiosità e intelligenza. So che crescere vuol dire uscire dal nido e io sono il nido e il mondo è lì fuori, su altre strade, in altre esperienze, in nuove sfide. Vedere altri adulti che li accompagnano e li amano come li amo io mi da fiducia: che la strada dei miei ragazzi sarà una buona strada, ricca di incontri e possibilità, cadute e mani tese pronte ad aiutarti quando devi rialzarti.

E poi, soprattutto, ti chiedo di non farmi mancare l’ottimismo realistico di mio marito, il compagno di viaggio che trasforma ogni fermata in una nuova partenza, ogni ostacolo in un futuro successo, ogni dubbio in un momento in cui testare le proprie capacità. Ogni galleria in una strada piena di domani e di prospettiva. Tutto si affronta, tutto si supera, tutto è felice con una persona così forte, concreta e ricca di fianco.

Come vedi, caro Babbo Natale, non ti ho chiesto poi molto e sono sicura che cercherai di lasciarmi quello che ho chiesto. Fai il possibile e se non dovessi riuscirci, sai bene che ho le spalle larghe.

Buon natale

mulino grigio

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Ci sono le mattine da mulino grigio, quelle in cui se venissero a girare un spot sui prodotti da forno per la colazione nessuno comprerebbe quei biscotti. Ci sono le mattine in cui i figli vanno a scuola solo con nel cuore la consapevolezza che quando torneranno a casa potranno dormire. Ci sono le mattine in cui dimentichi le cose da fare appena dopo averle pensate, scappano probabilmente dalle orecchie o dalle narici e tu non te ne accorgi neanche.

Ci sono le mattine in cui ogni saluto è una dichiarazione, verbale o meno, di stanchezza. E allora abbracci il figlio grande appena uscito dalla doccia e lui ti dice che è stanco. Incroci la figlia di mezzo seduta sul coperchio del water che piange perché ha sonno. Abbracci nel corridoio tuo marito e tutti e due vi appoggiate un po’ di più sull’altro, col rischio di riaddormentarsi subito. Guardi il piccolo seduto di fronte a te a tavola e vedi che farà colazione con lo sguardo perso e due lacrime a metà guancia che non hanno la forza di scendere fino a cadere.

Ci sono le mattine da mulino grigio perché non siamo capaci mai di rinunciare a una possibilità, che sia l’allenamento doppio di basket, il corso di coro, la presentazione di un libro in una libreria, la spesa a km 0 e il recupero delle ceste di verdura alle nove di sera. Perché a nessuno dei miei figli capita mai che una proposta che sentono a scuola, da un amico, agli scout o per la strada a loro non interessi. E allora comprimiamo un po’ più le ore e stringiamo più forte i denti, così riusciamo a cogliere anche quella occasione di crescita, stimoli, confronti, approfondimento.

– Per arrivare al natale dobbiamo sopravvivere a dicembre – ho detto stamattina ai ragazzi e siamo partiti tutti per i nostri impegni quotidiani. Ci mancano 19 giorni, pieni di eventi, recite, compiti, allenamenti, alberi di natale e addobbi da fare, vita. Sopravvivremo. Stanchi e felici.

72 ore di omissioni

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Il mio socio e io non abbiamo segreti. Ci raccontiamo praticamente tutto, dalle cose insignificanti a quelle più importanti. Condividiamo le preoccupazioni, gli errori, le figuracce un po’ perché siamo abituati a dirci cosa ci succede nella giornata, un po’ perché i segreti pesano dentro come le pietre nella pancia del lupo che credeva di aver mangiato la nonna.

Ma c’è un periodo dell’anno in cui i non detti sono essenziali per mantenere la pace familiare, per tutelare un certo equilibrio di coppia, per evitare che i figli assistano a spettacoli di battibecchi poco edificanti. Questo è quel periodo e quello che ometto è ciò che ho in previsione di cucinare nelle prossime 72 ore.

Non ho potuto omettere che domani prepareremo a mano agnolotti per 25 persone, visto che la linea di produzione si snoderà tra il nostro salotto e la cucina. Né che contemporaneamente ci sarà chi farà polpette per 15 persone.

Però lui non sa ancora che ho pensato di fare il pane per il 24 e il 25, le maddeleins per Babbo Natale e le renne, la crema pasticciera per guarnire il panettone al cioccolato, i cantucci perché è tanto che non li faccio, i tomini con il bagnetto verde. E magari la focaccia genovese, quella di cui mi hanno appena dato la ricetta, devo provarla.

Il nostro è un matrimonio felice e credo che le 72 ore di omissioni, dal 22 al 25 dicembre, siano uno dei pilastri più importanti.

ps. Questo post servirà a capire se il socio mi legge, lo scoprirò dal suo umore dei prossimi giorni

il tempo a venire

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Buon Natale a chi non ha più i capelli in testa e affronta un percorso che non sa dove lo porterà. Non sarà mai solo, ma quel percorso è solo suo, tutto personale, tutto sul suo corpo e nella sua anima.
Buon Natale a chi stanno ricrescendo i capelli, ispidi e bianchi, per i “sagrin” di quest’ultimo anno, forti e coraggiosi come si è dimostrata lei, resistente a tutto, anche a una vita che chiede tanto, forse troppo.
Buon Natale a chi i compagni di prima elementare li vede solo in cortile, perché i loro raffreddori, i loro mal di pancia, la loro tosse sarebbero sconvolgenti per il suo piccolo corpo che affronta una lotta così grande. E alle sue maestre che con speranza e determinazione trovano il modo per essere anche a distanza le sue maestre.
Buon Natale a chi sta imparando con fatica e lentezza a stare di nuovo con gli altri, a chi non riesce a condividere di più anche se ne avrebbe tanto bisogno. E ai suoi genitori che devono vederla rivenire al mondo ogni giorno, con la fatica di starci in questo mondo, con l’incomprensione di quale black out sia capitato a un certo punto.
Buon Natale a chi cresce senza la sua mamma, ma tanto di lei si porta dentro: la sua timidezza, il suo profilo, la sua resistenza e la sua determinazione. È un regalo vederla, accarezzarla da lontano e provare a parlare con quella mamma, che magari da qualche parte mi ascolta.
Buon Natale a chi accompagna, il ruolo più difficile di tutti. Perché deve imparare a coordinare il suo passo con quello di un altro, deve saper mettersi alla distanza giusta per dare sicurezza e lasciare autonomia.
Buon Natale agli amici di sempre, la naturalezza di stare insieme non smetterà mai di stupirmi e di scaldarmi. Ognuno ha un posto speciale dentro di me, tutto suo.
Buon Natale alle mie famiglie, a quella di sangue che mi prende sempre come sono, a quella del cuore che negli anni ha costruito insieme a me così tanto che ormai anche il sangue sembra mischiato.
Buon Natale alla mia famiglia lontana, che sento così vicina: nella calligrafia di quella ricetta delle madeleines, nei ricordi di 30 anni fa, nella lingua imparata alle medie che riesco a recuperare nella memoria solo pensando a loro. Nei viaggi che sogniamo Jacopo e io per andarli di nuovo a trovare.
Buon Natale alle nonne bis, a quelle che ci sono ancora e a quelle che non ci sono più. A quelle musone e a quelle miti, a quelle polemiche e a quelle allegre. Ho ancora le vostre lenzuola nei cassetti, il gusto delle vostre zeppole in bocca, le palline del vostro albero di Natale sul mio.

Buon Natale e buon tempo a venire, mi impegno a viverlo tutto, senza lasciare una sola giornata indietro.

babbo natale ha lasciato qualcosa

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Appena uscita da una riunione di scuola elementare chiamo i due figli maschi, soli a casa, per dire che sto arrivando. Risponde il grande e poi si infila la voce del piccolo:

– Mamma, Babbo Natale ha lasciato qualcosa a casa nostra… –

– Davvero? Allora arrivo subito a casa! –

C’è un motivo per cui ogni fine di novembre mi spremo le meningi per inventare un nuovo calendario dell’avvento. C’è un motivo per cui negli anni ho cercato storie di natale e le ho divise in 24 pezzi, ne ho inventate e scritte io, ho cercato poesie e filastrocche che abbiamo attaccato alla porta, ho comprato muschio e stelline argentate per costruire il nostro libro di Natale, ho appeso bustine con i numeri sullo specchio dell’ingresso. Il motivo è quella voce che ha l’urgenza di dirmi che anche quest’anno Babbo Natale è passato da noi. Il motivo è la prontezza con cui questa sera hanno spento la tv per ascoltare come funzionerà il calendario dell’avvento di quest’anno. Il motivo è l’allegria che questo rito crea sempre in casa, la curiosità, il senso di attesa. Che sa di casa, amore e attenzione. Che sa di famiglia, calore e cura. Che sa di aspettative, impazienza e sorpresa.

Quest’anno il nostro calendario dell’avvento ci porterà in giro, per il mondo lontano e per quello vicino. Ci farà scoprire che la casa è il trampolino da cui lanciarsi per andare nel mondo e prendersene cura.

alcune cose più belle

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Come in ogni Natale ci sono state tante cose belle, ma alcune più belle.

Mio papà seduto a tavola con noi, al suo solito posto, di fianco ai consuoceri. Non è che gli altri siano stati meno importanti, ma ho avuto paura che lui non ci sarebbe stato più nei nostri pranzi di Natale e invece c’è e tutto è più bello di prima.

Il tifo e le indicazioni urlate al nonno cieco, per aiutarlo a pescare una caramella nella macchinetta come quella delle giostre. Suggerisco una nuova specialità delle Paralimpiadi per la prossima edizione.

La gioia dei nonni nel dare a Jacopo il regalo che chiede da un paio d’anni e che finalmente i suoi genitori bacchettoni hanno concesso. Lui lo sapeva già che quel regalo sarebbe arrivato, non perché avesse particolare fiducia in noi, ma perché il nonno non ha saputo mantenere il segreto. E i regali più belli, quelli desiderati più a lungo, è giusto che li facciano i nonni.

Parlare con mia suocera con calma, di contrasti e difficoltà tra le persone. Parlare, non solo di logistica e di organizzazione familiare, ma di come stiamo, di sensazioni, di pensieri.

Mia nonna a casa mia fino quasi a cena, col suo sorriso e i suoi occhi sempre più piccoli, le sue frasi estemporanee e la consegna dell’unico regalo che ha scelto lei: un profumo per mia cognata. Perché è così che si fanno i regali, non a tutti indiscriminatamente, ma a qualcuno a cui abbiamo pensato.

Diego che gioca coi nonni a un gioco di società e fa le parti di tutti, Lucia, Anna e Matteo che giocano tutti insieme, senza mai litigare e lamentarsi.

Le telefonate importanti, quella di chi finalmente fa il nonno e si trova la mattina di Natale a passeggio col nipote e quella con la mia amica, a sera tardi, quando si sdraia sul divano dopo che tutti sono usciti da casa sua. La sua stanchezza e la sua soddisfazione. I messaggi con le foto delle due amichette che colorano i giochi che hai scelto per loro.

La presenza di Eva, nuovo angelo custode della nostra famiglia, con la sua storia diversa dalla nostra, la sua lingua diversa, le sue feste diverse. Perché non è la somiglianza nella lingua, nelle storie o nelle tradizioni religiose e culturali che ci rendono vicini. Ma la voglia di conoscere, dialogare, ascoltare e incontrare gli altri.

 

questa è casa mia

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C’è il microfono che non funziona bene e che viene spento e mai riacceso ad ogni intervento.

C’è il ragazzo che sul palco si mette esattamente dietro la scenografia e resta coperto per tutta la sua parte di scenetta, ma penso che sia stata una scelta volontaria.

C’è il gioco di fiducia di quello che si butta sulle braccia dell’altro di spalle, senza guardare, proposto ad adulti che (forse) si conoscono di vista.

Ci sono gli stralci del film I cento passi trasmessi in video, il discorso sulla bellezza che salverà il mondo, la canzone cantata insieme. La stessa che abbiamo cantato per salutare un’amica che aveva deciso di smettere di camminare su questo mondo.

Ci sono i piccoli che non sanno leggere che cantano una canzone che dovrebbero leggere su un cartellone, ma i loro neuroni sono belli freschi ancora e quindi l’hanno imparata a memoria in un pomeriggio.

C’è il ragazzo del Senegal conosciuto in una comunità di accoglienza per profughi seduto in prima fila, nero come il giubbotto di pelle nera che ha addosso,che sale timido sul palco in mezzo a quei ragazzi che ha conosciuto una settimana fa e si commuove a dire che lui in Italia sta benissimo e che è felice di essere con noi stasera.

Ci sono i biscotti al burro fatti passare tra i genitori seduti, preparati dai ragazzi e gli angioletti di carta ritagliati dai bambini oggi pomeriggio, segni di questa serata che ci portiamo a casa. Come un nastrino verde che tre anni fa affidavo a Valeria e che è ancora con lei.

C’è Oh happy day, cantata tutti insieme, e se sei stato scout non puoi non averla già cantata a qualche veglia.

Ci sono le chiacchiere una volta tornati a casa, con i ragazzi ancora in uniforme, con gli occhi che si chiudono dalla stanchezza. E in quel momento intorno al tavolo io trovo il nostro senso di famiglia, che è fatto anche di scoutismo, di condivisione di un’esperienza che tanto significa per ciascuno di noi.

Ci siete voi, bambini, ragazzi e adulti che mi camminate a fianco, amici vecchi e nuovi. Siamo davvero fratelli e sorelle, basta davvero uno sguardo perché i nostri cuori si parlino. Basta aver messo un fazzolettone al collo e aver avuto una promessa cucita all’altezza del cuore per sentirsi a casa questa sera.

vecchio e nuovo sotto l’albero

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Oggi 8 dicembre a casa nostra si fa l’albero di Natale o meglio, si fa l’albero e si mettono pezzi sparsi in giro che facciano capire che siamo pronti per Natale.

Ci sono teorie diverse, approcci all’addobbo che nei passati 14 anni (perché son già 14 gli anni che Flavio e io condividiamo gli addobbi natalizi) hanno imparato a convivere e a trovare strade nuove (anche se a me i festoni sull’albero continuano a non piacere). Ci sono i grandi classici e le new entry e fare l’albero di Natale diventa un viaggio nelle nostre vite.

C’è la pallina di nonna Bruna, una scatolina vecchia impacchettata con una carta rosa e un nastrino argentato. C’è l’angioletto di pannolenci dell’albero di casa mia, quando ero piccola, e il funghetto rosso e dorato.

Ci sono gli addobbi finlandesi e russi del viaggio di nozze, quelli che in fondo mio marito ha comprato un po’ contro voglia, ma non puoi andare a inizio novembre a Helsinki e non comprare la stella da mettere come punta.

C’è una sacra famiglia intagliata in un disco di legno comprata a Parigi, nell’ultimo viaggio prima di avere dei figli. L’ultima volta che siamo stati a Parigi, una vita fa, troppo tempo fa. Bisogna rimediare.

Ci sono i biglietti di auguri di oltre 20 anni di scuola di Jacopo, Lucia e Diego, le loro palline con le foto che hanno decorato per anni l’albero del nido Mafalda, l’albero più bello che abbia mai visto, coi sorrisi di tutti i bambini, le educatrici e gli operatori.

E poi ci sono le novità.

Per il primo anno Flavio ha un aiutante per fare il presepe, Diego. Il resto della famiglia l’ha sempre ignorato, al massimo ha aggiunto un gormito della terra man mano che passavano i giorni.

Per il primo anno Jacopo non ha fatto l’albero con noi, perché è stato invitato a giocare a D&D da un amico. Ha avuto un secondo di esitazione se accettare o meno l’invito e ha resistito ai sensi di colpa che suo fratello piccolo cercava di fargli venire.

Natale può arrivare, noi siamo pronti (o quasi).

 

abeti e addobbi natalizi a 40 gradi all’ombra

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Da sempre, da quando ricordo una tv in casa luglio è il mese delle repliche dei telefilm. Puoi rivedere passate edizioni di qualsiasi cosa sia andata in onda durante l’anno (o gli anni passati): da Geo&Geo a Heidi, da E.R. a una fiction a caso di Rai Uno.

I telefilm per adolescenti cretini che ormai in casa nostra si guardano (e che cerchiamo di razionare per evitare di avere una figlia di 8 anni che si atteggia a sciacquetta americana 15enne) non fanno eccezione e rivisti una seconda volta aumentano il livello di idiozia oltre misura.

Ma quello che non mi spiego è perché con le migliaia di puntate a disposizione chi si occupa dei palinsesti tv debba sempre scegliere quelle di Natale. Mentre boccheggi al sesto giorno di caldo tropicale a Torino, di quelli che quando al mattino esci in balcone l’umidità ti si attacca addosso tipo un cappottino, di quelli che i tuoi figli maschi, che hanno un talento naturale per il sudore in testa, hanno sempre l’effetto bagnato naturale sui capelli, ti siedi sul divano e cosa vedi? I Big Time Rush che tagliano il tacchino e spacchettano regali di Natale, Heidi che non riesce a raggiungere la casa del nonno perché una tempesta si è abbattuta sui monti e le caprette sono sepolte dalla neve (che sembra latte di nuvola), i Fantagenitori che vivono 365 giorni all’anno il 25 dicembre.

Davvero non mi spiego questa scelta, se sia per farci sentire meno il caldo in un’identificazione con gli infreddoliti personaggi dei cartoni, se sia perché non sappiamo mai stare nell’oggi e adesso vorremmo che fosse inverno, mentre d’inverno sogniamo i 30 gradi. Se sia che vogliamo essere sempre avanti, o sempre indietro.